a cura di Mara Stefanile
Di come e perché la musica si salva da sola, se la si lascia fare
Nel mezzo dello scorso venerdì sera mi ritrovai in un oscuro locale napoletano, che la diretta della quarta serata di Sanremo, era smarrita. Si dà il caso che proprio lì vi abbia trovato un amico dalla comune ed estroversa curiosità per la nostra kermesse nazionale di musica leggera. Ora, ancora il caso (che i fatti suoi pare non se li faccia proprio mai) ha voluto che il suddetto amico avesse scritto per L’Indiependente qualche annetto fa – in era faziana, per intenderci – delle righe che centravano il punto su quello scollamento sempre più acuto tra autorialità, produzione e pubblico nello striminzito universo italico della subcultura musicale. Qui l’intero articolo che vi consiglio vivamente di leggere prima di proseguire.
Bene, a questo punto, io che non sono sorda ai petulanti richiami del caso, proverò alcune variazioni sul tema.
Dagli anni ‘60 fino agli anni ‘80 la nostra musica leggera e non, godeva di ottima salute, vantando autori, cantautori, interpreti, musicisti e parolieri estremamente prolifici e ispirati. In questo trentennio la subcultura e la cultura musicale italiana dialogano fra di loro producendo una sinergia pressoché perfetta tra il pubblico e il popolare, quest’ultimo inteso nella sua più nobile declinazione, cioè come spirito storico, o meglio come desiderio storico.
Mentre negli States degli anni ‘90 lo spirito storico smells like teen, e ci ricorda che nessuna rivoluzione si fa senza il fronte popolare, noi abbiamo assistito ad una dilatazione inesorabile della forbice pubblico/popolare. La prova più evidente di questa deriva ce la offre la visione che fuori stivale hanno della nostra musica leggera: ibernata ad un laconico Nel blu dipinto di blu.
Si dovrebbe tenere in conto, ad onor del vero, anche del fenomeno Pausini/ Ferro/ Sudamerica, Cutugno / Albano/ Russia, e via discorrendo, ma temo di non avere la forza di farlo adesso.
Ora, che cosa succede nella nostra società dagli anni ‘60 ad oggi?
Quel che accade è una progressiva riduzione dell’analfabetismo e dunque un innalzamento medio dell’accesso ad un’istruzione superiore. A questa apertura pubblica culturale fa sponda la riproducibilità della musica tramite i compact disc prima, e con l’esplosione di Internet e i formati digitali poi. Insomma, il testimone passa nelle mani del fruitore finale, e il linguaggio fino a quel momento utilizzato dalla radio, dalla televisione, dalla discografia e dagli artisti stessi si frattura, non riuscendo a reagire al nuovo ordine.
Si apre allora un baratro di micro-mondi sempre più specializzati nella subcultura, cui si accompagna parallelamente nella cultura mainstream un impoverimento della qualità media cercando di tirare una coperta sempre più corta, e ancora, una musica cosidetta colta, che si fa i fatti suoi chiusa nei conservatori o nei teatri che contano, come a ribadire, noi sèmo noi e voi non siete n’cazzo.
Lo scollamento schizoide dei linguaggi estetici è il risultato di una forsennata rincorsa al cliente, dando vita dunque ad un’opera d’arte che è soprattutto prodotto, volatile ed effimero. (Se vi interessa approfondire una riflessione del genere, nel campo della letteratura e dell’editoria, qui troverete pane per i vostri denti). Mi fermo.
Torniamo a Sanremo, il nostro festival della canzone casca a fagiuolo nel nostro discorso, perché ci permette di tenere il polso dello stato delle cose. Dunque, accolto come postulato il mantra di Bartok secondo cui “le gare sono per i cavalli, non per i musicisti”, tanto nei Talent quanto in una manifestazione come Sanremo, la mancanza di un discorso d’insieme è in qualche modo smascherato dalla figura stessa del giudice, o del presentatore/patron, come livellatore di contenuti, attenendosi di fatto ad una logica obsoleta, implosa su se stessa. Potrei tirare in ballo Marx e il capitalismo, ma diventerebbe un campo minato assai difficile da superare, e poi non voglio annoiarvi.
Detto questo, veniamo al punto, perché non riusciamo ad approfittare di una manifestazione come Sanremo in qualità di atto scenico-performativo, cioè come teatro o cinema, vale a dire come dimensione in cui corpo e linguaggio (musicale, in questo caso) generano il movimento e sono votati alla costruzione di una narrazione che fonda nella sua ripetizione costitutiva la possibilità stessa di una ri-significazione. Manchiamo sistematicamente l’occasione per farlo.
La presenza stessa di un’orchestra sinfonica passa in secondo piano, ingombrante eppure impossibile da ignorare come un pachiderma dormiente. Gli arrangiamenti si riducono nella maggior parte dei casi ad un compito sciapo e fermo. Perché? Perché i linguaggi compositivi e produttivi si sono ridotti ad una ripetizione dell’identico, dov’è che il discorso estetico della nostra musica popolare ha dimenticato, per dirla con Deleuze, la sua differenza, il suo desiderio ?
Quando è che la nostra esperienza del popolare si è trasformata nella ripetizione di un discorso identitario nazionale, il cui unico scopo consiste nella rassicurazione della mediocrità, di un’italianità media da tenere in tasca, e dentro la quale nascondere tutte le nostre paure di popolo che ha perso il contatto con la storia, e che ha smesso di raccontarla, musicalmente e non. Lo stesso vale anche per le singole derive regionali, naturalmente.
Per spiegarmi meglio prenderò a prestito delle parole scritte da Pasolini in Empirismo eretico riguardo la lingua italiana media, non vi spaventate: «Insomma, il discorso indiretto in una pagina scritta implica una incursione verso una lingua bassa, la koinè fortemente dialettizzata e i dialetti: si carica di materiali sublinguistici. Ma un tale materiale – e questo è il punto- non vengono portati al livello di una lingua media, per essere quivi elaborati e oggettivati quali contributo all’italiano medio: no, essi attraversano la linea a serpentina, vengono portati nella zona alta o altissima, ed elaborati in funzione espressiva o espressionista». Contro il linguaggio dominante di una scrittura borghese tesse le lodi del discorso libero indiretto, vale a dire un discorso performativo in grado di produrre movimento di variazione a partire dalla sua ripetizione.
A questo punto riportando il discorso alla musica che è pur sempre una lingua, viene da se che un linguaggio vivo dovrebbe riuscire a produrre questi slittamenti tra la subcultura e la alta cultura, non congelandosi in un oggettivazione media ferma, bensì scoprendo in questa dimensione mediana la possibilità di una ri-significazione, di un linguaggio in movimento.
Da qui si potrebbe fare da una parte, una disanima della nostra incapacità scolastica, nei luoghi cioè di (ri)produzione del sapere, dei linguaggi, i famosi flauti delle medie evocati da Morricone, e la storia dell’arte prettamente figurativa studiata al liceo (quando si va bene). Dall’altra, l’iperframmentazione camuffata da specializzazione nella formazione alta che fallisce lo scopo principe della cultura, cioè ‘tenere insieme’. Come dicevo prima, con la progressiva apertura al sapere a partire dagli anni ‘60, fino alla prateria sconfinata dei linguaggi web, ci siamo trovati tra le mani le chiavi di una libertà di cui non abbiamo saputo cosa farcene, subendo paradossalmente una retorica consumistica cui il nostro stesso corpo, il nostro desiderio e il nostro linguaggio continuano a fare un’esperienza allucinata. Giacchè non di libertà si tratta se non accompagnata da un movimento verso un fronte di lotta che le è proprio, ma di una prigione, seppur dorata.
Ed è qui che veniamo al nostro secondo punto: se per ereditare, come dei novelli Telemaco, dobbiamo essere orfani e dunque sperimentare una mancanza, il debito linguistico che ci lega al nostro passato non comporta mai la ripetizione dell’identità, bensì un movimento in avanti, l’esposizione ad un rischio.
In questo senso vale il discorso della musica colta che deve essere popolarizzata, e viceversa. Insomma si è sedimentata nel tempo l’opinione diffusa che in Italia siamo un branco di caproni, nostalgici del bel canto da un parte, esterofili fino al grottesco dall’altra, ma probabilmente il problema è che ci siamo assuefatti a del cibo di scarsa qualità, e che invece magari la soluzione al male ce la offre guarda un po’ lo stesso Sanremo, quando Conti porta Ezio Bosso sul palco dell’Ariston.
Che cosa succede? Quello che succede è finalmente il vero teatro, la magia della narrazione performativa. Bosso accende la catarsi del pubblico su di se, a mio avviso doppiando e infine spezzando la compassione pietosa verso il malato di SLA.
Il corpo malato e mancante del maestro Bosso acquisisce valore linguistico performativo, e diventa rivoluzionario nel momento in cui è ‘tenuto assieme’ dalla musica che esegue, riformandosi continuamente. Il pubblico sa che il corpo malato di Bosso è il suo stesso corpo, un corpo mortificato dal racconto nazionalpopolare pietoso e mediocre, e che tuttavia riesce a rovesciare.
Bosso, il bassista degli Statuto, Bosso il compositore classico, Bosso a Sanremo, riesce nell’impresa di tenere assieme i tre corpi, di impastare assieme la storia, generando un corpo vivo e rivoluzionario.
Se è vero che la musica, come la vita si fa assieme, allora per dio, cominciamo a parlarci.