Il nome d’arte scelto da Nicholas James Murphy (ndr probabilmente non è il primo James Murphy di cui abbiate sentito parlare) è uno dei giochi di parole “simpatici” più brutti degli ultimi anni. Detto questo, possiamo, con molta più tranquillità, parlare del disco d’esordio del barbuto cantautore-producer australiano, esordio atteso da diversi mesi. In realtà sono passati già due anni dall’ep di esordio Thinking in Textures ed in particolare dalla sinuosa cover di No Diggity, pezzo dei Blackstreet, storico gruppo r&b anni ’90. In questi anni Murphy, nonostante nessun album all’attivo, ha fatto non poco parlare di sé. Considerato uno dei nomi di punta della scena indipendente australiana, la sua stretta collaborazione con Flume, altro nome fondamentale della scena indie oceanica, ha portato alla pubblicazione di Lockjack, ep meritatamente apprezzato anche nell’altro emisfero.
Se vogliamo descrivere in due parole quella che è l’idea musicale di NJ Murphy, potremmo definirlo come un bianco hipster barbuto appassionato di musica nera. Il muro portante della sua musica resta l’approccio chillwave e dowtempo, tra looping, sampling e grooves con cui non è certo la prima volta che veniamo a contatto, specie degli ultimi 5-10 anni. Quello che riesce a Murphy è condensare all’ interno di questi schemi minimali la lezione della black music, dal soul all’r&b più classico arrivando al nu-soul e al pop r&n anni ’90. Vocalità calda e nuda in primo piano, piano elettrico, beat che richiamano linee di basso à la Soul Train. Il risultato di questa contaminazione è quanto mai intrigante.
Il disco si spezza in due parti e a fare da spartiacque sono le parole dell’autore nei 20’’ di “/”, this is the other side of the record, now relax still more and drift a little deeper as you listen.
Le calde note di piano di Release you problems, danno inizio a quello che possiamo definire il lato A del disco, lato notturno e sensuale, dove la componente r&b è quella che più marcatamente viene fuori. La profonda e versatile voce di Murphy detta i tempi in Talk is Cheap, primo dei singoli, tra sovrapposizioni vocali che si compongono su note soul di piano elettrico e sax, amalgamate su delicati beat strutturali. Le tracce successive sono concepite come un crescendo che passa dalla conturbante voce di Kilo Kish in Melt per arrivare alle atmosfere notturne e malinconiche di To Me, in cui il denominatore principale resta un approccio tendente alla black-music. In quello che possiamo definire il lato B, invece, i bpm vanno gradualmente a salire e la composizione dei pezzi segue ispirazioni che guardano più “classicamente” a robe downbeat e glitch, richiamando ai pezzi prodotti insieme a Flume. Menzione d’onore al secondo singolo 1998 e alla inquieta Cigarettes & Loneliness. La chiusura del disco è invece affidata alle sperimentazioni vocali sul blues disperato e soffusso di Lesson in Patience e al jazzy di Dead Boy.
L’esordio dell’australiano è un disco che riesce su diversi fronti, Chet Faker, nella speranza che riceva consigli migliori sulla scelta del nome d’arte, si dimostra un artista capace di dare nuove interpretazioni all’universo chillwave, in cui ormai è sempre più difficile trovare spunti degni di nota e di originalità. Inevitabilmente, come in buona parte delle ultime produzioni nel genere, in alcuni pezzi il “già sentito” si affaccia con la sua pesante ombra sulle nostre orecchie e l’indisponente voglia di passare alla traccia successiva diventa ineluttabile, tuttavia in questo disco non accade spesso, molto meno che in altri più o meno acclamati lp degli ultimi anni che appartengono allo stesso universo. Merito delle atmosfere estremamente suggestive e crepuscolari a cui Murphy riesce a dare vita e al riuscito tentativo di commistione di generi, facendo traspirare una spontaneità e una profondità compositiva, che sono merce rara al giorno d’oggi.
Downtown/future Classic, 2014