Ieri mattina è stato trovato il corpo di Chester Bennington, cantante e frontman della band Linkin Park, esanime nella sua casa di Palos Verdes. Lascia la moglie e sei figli. Una morte che ha scosso le redazioni giornalistiche musicali del mondo in un modo forse inaspettato.
Aldilà del passato difficile e dei rapporti con la droga di chi li compie, gesti come questo ci mettono sempre di fronte a noi stessi. Un critico musicale ha il compito, per lo più autoinflitto, di distinguere la musica buona da quella cattiva, di saper motivare con la sua cultura le sue scelte e di saperle dimostrare ai suoi lettori e di allungare il destino di quella che per lui vale. A volte capita il contrario. A volte è il pubblico, la massa, che elegge i propri paladini e al giornalista non resta che farsi da parte, senza snobismo e con occhio da osservatore interessato.
Non avrei mai voluto scrivere nulla sulla morte suicida di Chester Bennington. Mi ricordo che comprai Meteora appena uscito, ero alle medie, e lo ascoltai fino a consumarlo fino in terza liceo. Ai tempi succedeva sempre così: ad un bambino che non ascolta la musica si presenta una compilation su CD iridescente presa direttamente da MTV e lui diventa un adolescente.
Due delle grida strappate alle corde vocali, filtrate da una patinata produzione major, vagamente nasalizzate e piegate elettronicamente che erano contenute in quel disco sancirono il mio passaggio da Top of The Pops ai Nirvana. Queste:
“In the end it doesn’t even matter.”
E
“Nobody is listening.”
Così semplice. La tv mi voleva così, io mi volevo così, i miei ormoni mi volevano così ed io mi illusi di essere questo. Per me era bellissimo passare ore in pullman perso in una chitarra distorta e in un urlo monotono e immediato che mi parlava senza poesia né giri di parole di quanto mi sentissi solo.
Una volta arrivati i Nirvana, così a ritroso, questo finì. Non ascoltai la voce di Chester quasi mai dopo quel momento, commentai i nuovi singoli che uscivano e di cui per lo più leggevo e basta, con la sufficienza che si usa quando si parla dei momenti imbarazzanti di quando si era ragazzini. Colpevolmente e in mala fede.
Ho deciso e chiesto di scrivere questo piccolo pezzo quando due miei amici hanno fatto irruzione nei nostri gruppi chat con la notizia della sua dipartita, evocando i loro ricordi e quello che quella voce gli aveva dato. Evocavano gli AMV di Dragonball e Kingdom Hearts che all’epoca guardavo anch’io, evocavano i primi power-chord in garage che all’epoca suonavo anch’io ed evocavano quella mistura ingenua e superficiale di rock e hip-hop che segnava quegli anni e che fece di loro una delle band oggettivamente più acclamate del pianeta.
Pochi sanno che Chester Bennington era amico intimo di Chris Cornell, scomparso anch’egli suicida qualche mese fa. Per lui aveva cantanto ‘Hallelujah’ durante il commiato. “Non riesco a pensare ad un mondo senza di te” gli aveva detto, per poi ripetere il suo gesto, nel giorno in cui Cornell avrebbe compiuto 53 anni.
Questi sono segni di una intimità che non può essere ignorata. Ma se si ripercorrono gli ultimi mesi della vita del biondo cantante dei Linkin il profilo che emerge fa storcere il naso di fronte a facili interpretazioni.
È estesamente documentata la reazione di Bennington alle critiche quasi unanimi che hanno avvolto il secondo album autoprodotto della band One More Light uscito il giorno dopo la morte dell’amico. “Vi siete definitivamente venduti” è il messaggio dei critici e di parte dei fan. La svolta pop dichiarata è fallita, nessuno vuole questa roba da te Chester, tu devi urlare, tu devi farci sentire adolescenti infelici a cui piace il Rock.
Queste invasioni della privacy proprie dello showbusiness spesso sono imperdonabili sulle anime più sensibili. Soprattutto sull’anima di Chester che pareva aver trovato in questo disco l’occasione di affrontare quelli che lui chiamava “i suoi demoni”.
Vi lascio con due citazioni tratte da due diverse interviste in cui, imperiosa e suprema sotto strati di patina pubblicitaria, la sensibilità umana di Chester Bennington ci dà uno sguardo su quell’interiorità che scioccamente siamo abituati ad attribuire solo a noi stessi e ai grandi eroi, mentre forse il dubbio resta che siano proprio i nostri Chester Bennington ad essere gli ultimi veri romantici.
“When you make it personal, like a personal attack against who we are as people, like, dude, shut up. That means that I can actually have feelings about it and most of the time my feelings are ‘I want to kill you.'”
“I’m human and sometimes take things too personally. Most of our fans have been very positive lately. Some… not so much. Either way… there is a lot of passion on both sides and I am grateful to all of our fans. […] Time to recalibrate my perspective. So I say to all of our fans… Thank you and I love you all. Peace, love and happiness.“