Il fascino e la potenza visiva ed emozionale di una serie come Chernobyl sta tutto nel suo realismo: a guardarla questa miniserie già candidata a essere una delle perle dell’ipertrofico mondo seriale, ci si rende conto che l’epilogo della catastrofe del 26 Aprile 1986 stia semplicemente nel constatare la nostra stessa esistenza. Guardando Chernobyl ci guardiamo allo specchio: eccomi, sono qui, sto ancora vivendo la mia vita, e nonostante. L’incidente alla centrale nucleare Vladimir I. Lenin, a tre chilometri dalla città abbandonata di Pripyat (anche detta la Pompei ucraina), e al confine con la Bielorussia, è riuscito a penetrare un intero immaginario di paure e orrori dell’umanità tutta, in fondo ha portato l’uomo a chiedersi fino a che punto possiamo spingerci nell’accettare di convinvere dentro quella che Ulrich Beck chiamava la “società del rischio”. A mandare avanti le nostre vite accettiamo tutti una certa dose di rischio, che combattiamo con la fiducia nel prossimo: fiducia nell’ingegnere che ha tirato su un ponte, fiducia che il tizio che sta guidando il nostro bus non sia ubriaco, fiducia nel convivere in una ridente cittadina alle porte di una centrale nucleare che non sia a rischio di incidente mortale. È anche su questo orizzonte che ci porta a riflettere con forza una serie come Chernobyl.
L’incidente di Chernobyl è stato un evento inedito per l’umanità. Se si eccettua l’orrida carneficina prodotta dalla bomba atomica gettata dagli Stati Uniti sulle città di Hiroshima e Nagasaki, non avevamo avuto alcuna esperienza umana di una tale dispersione di radioattività. È così che davanti a nostri occhi si presentano tutti i suoi effetti più letali, e dell’insensata corsa al nucleare che ancora ci riguarda, e quanto sia fragile quella fiducia con cui ci consegniamo ogni giorno ad accettare rischi incalcolabili. Del resto se la miniserie è diventata in pochissimo tempo quella con uno degli indici di gradimento più alti da parte del pubblico vorrà dire che è riuscita a colpire una qualche corda umana.
Siamo nell’Unione Sovietica del 1986, Gorbačëv è Presidente e ha da poco inaugurato una politica nel segno della glasnost, ovvero della trasparenza. Peccato che di fronte all’incidente se ne dimentichi, e che dall’altro lato della cortina di ferro l’Occidente si accorga di cosa è successo a Chernobyl solo perché nella centrale di Forsmark in Svezia era scattato l’allarme dei rilevatori di radioattività. In un’epoca di fragile guerra fredda per l’URSS ammettere un incidente simile significava rendere conto al mondo di proprie trascuratezze, un errore non certo banale perché minacciava l’intero continente sovietico ed europeo. Inoltre la tipicità che rendeva quell’evento inedito aveva portato a sottovalutare i rischi connessi all’incidente persino da parte di chi lavorava nella centrale, probabilmente vittime di quel processo di negazione della verità quando si avvicina così tanto all’orrore. Eppure l’impatto di quell’evento-tragedia è così forte che esiste addirittura una letteratura che vede nell’incidente di Chernobyl una delle cause del crollo dell’Unione Sovietica, e come lo stesso Gorbačëv ha detto: «Chernobyl, più che la perestrojka, è stata forse la vera causa del collasso dell’Unione Sovietica cinque anni dopo». Anche volendosi tenere alla larga dalle letture che individuano una sola causa a riguardo del crollo, le conseguenze per la popolazione furono così devastanti che non è difficile immaginare come l’incidente abbia potuto contribuire a un raffreddamento e una stanchezza nei confronti del sistema sovietico e della stagione gorbacioviana.
Ci troviamo nel cuore della notte ucraina, sullo sfondo della vita di tutti i giorni di Pripyat, quando un test alla centrale Lenin non va come previsto e avviene l’esplosione: molti cittadini andranno ad ammirarla da più vicino sul ponte della città, inconsapevoli dei rischi di respirare quell’aria – e in fondo come potevano immaginare che potesse essere così malata da causare ustioni da radiazione. È una notte tragica, chi lavora alla centrale se ne rende conto a poco a poco, e pure i vigili del fuoco che accorreranno sul posto per provare a domare l’incendio lo vivranno sulla propria pelle. Il chimico sovietico Valerij Legasov viene inviato sul posto insieme al vicepresidente del consiglio dei ministri Boris Shcherbina come parte della commissione d’inchiesta messa su da Mosca: da qui comincia la corsa contro il tempo per evitare l’escalation della catastrofe. Viene evacuata la città, nessuno tornerà mai più alle proprie abitazioni, ogni pezzo di vita dentro le case resterà come è stato abbandonato. Parallelamente alla catastrofe scorre la trama dell’insabbiamento di politica e servizi segreti sulla natura dell’incidente, che poi porterà al tragico suicidio di Legasov. Ma sono sopratutto le vite al singolare di uomini e donne a uscirne fuori letteralmente travolte dal dirompente evento.
Ed è proprio nella sua storia che si coglie la potenza visivo-narrativa di Chernobyl, visionaria perché reale: non solo riesce a farci immaginare un orrore a venire ma ce lo fa toccare con mano in tutte le sue conseguenze più disastrose. Non mancano i topos dell’eroismo tipicamente americani, come nel caso dell’invenzione del personaggio della fisica nucleare Ulana Khomyuk (sintesi di un team di scienziati), eppure al fondo ciò che tocca l’anima è il forte senso di realtà, quell’amaro sapore apocalittico che ci fa riflettere pure sui disastri a venire, e quelli di cui l’uomo potrebbe essere diretto responsabile, sul compromesso che facciamo con il rischio sfidando il pericolo e il monito della scienza. Chernobyl è una serie toccante, che parla alle corde dell’essere umano e dell’abitante del pianeta. Vi lascerà un’amarezza da masticare poco a poco.