“Whale” di Cheon Myeong-Kwan (Edizioni e/o, traduzione di Rosanna De Iudicibus) è una Storia sudcoreana, Storia con la S maiuscola, uno di quei romanzi che la Storia la attraversa e la svela. Eppure l’unica citazione musicale, in un arco temporale tanto ampio, sudcoreana non è. Il tempo scappa, la cultura si contamina e ad arrivare nel Juke Box della cittadina fantastica di Pyongdae sono i King Crimson con Epitaph, i cui versi suonano così:
The wall on which the prophets wrote
Is cracking at the seams
Upon the instruments of death
The sunlight brightly gleams
La frattura nel muro funge da simbolismo per quella che è la crepa storica del Paese, il mondo precedente alla disgregazione nelle due Coree, il tritacarne fratricida, la rincorsa del Sud, quello stesso muro che sarà un elemento portante e ricorrente di tutto il romanzo.
“Whale” è quella che si potrebbe descrivere una lunga “fiaba violenta” non tanto per quelli che sono gli elementi fondamentali riconosciuti da Propp, quanto per l’aura di magia e meraviglia che pervade le pagine del libro.
Violenta perché di violenza è pervasa, una violenza cruda che non risparmia donne, bambini, disabili, una violenza spesso sessuale, disturbante sia dal punto vista fisico che psicologico, vista con uno sguardo estremamente cinico che però non rinuncia ad un’atmosfera rarefatta e limbica.
Il romanzo è ambientato da personaggi magici, uomini di 500 kg, elefanti parlanti, ammaestratrici di api in un’atmosfera che incrocia il fantastico e l’assurdo a quella che è la costruzione di un Paese.
Il libro, nonostante sia stato riproposto solo lo scorso anno è in realtà del 2003, anno in cui Kim-Ki-Duk fa uscire un film come La Samaritana, anch’esso carico di brutalità sessuale e allo stesso tempo denso dal punto di vista della critica sociale, un bisogno che sembra unire differenti piani artistici. L’anno precedente Lee-Chang-Dong usciva con il toccante Oasis un viaggio tra gli ultimi, nella contraddizione della società coreana, un film che si inserisce nello scarto tra il possibile e il reale, senza tralasciare mai la violenza più tremenda come schema ricorrente. Lo sfruttamento del piano onirico e magico sembra in qualche modo avvolgere la letteratura di quegli anni e solo di poco successivo sarà infatti quello che è il romanzo sudcoreano internazionalmente più conosciuto e che di queste forme si nutre: La vegetariana di Han Kang.
“Whale” in questo senso si inserisce all’interno di una sorta di fermento creativo che sembra esplodere con prepotenza all’interno di una società sempre più “avanzata e moderna” ma anche sempre più contraddittoria e atomizzata.
When every man is torn apart
With nightmares and with dreams
Will no one lay the laurel wreath
When silence drowns the screams
Incubi e sogni, urla e silenzi, sono colonne portanti di tutto il romanzo, colonne portanti delle due protagoniste Guembok e Chunhui. La prima trasforma l’incubo nel sogno, in una sorta di korean-dream. Inizia infatti, facendo parte degli ultimi della società ed attraverso mille peripezie, umiliazioni e violenze riesce a costruirsi sino ad arrivare a possedere una fabbrica di mattoni, con la storia che passa dal simbolico muro squarciato ai veri e propri muri eretti: case, città, cinema, teatri.
Urla e silenzi sono il non-dato e il sempre-presente del personaggio di Chunhui, muta, ma gigantesca e fortissima, eco della balena come creatura mitica, sballottata dalla vita nelle situazioni più crude e assurde, chiusa in un silenzio assordante che le permette però di assorbire il mondo e di trovare la forza di plasmarne uno proprio.
Guembok e Chunhui sono due pianeti all’interno di un sistema dove la stella principale è la Storia stessa della Corea e dove tutti i numerosi personaggi secondari si muovono come satelliti impazziti slegati delle leggi dell’universo.
Confusion will be my epitaph
As I crawl a cracked and broken path
If we make it, we can all sit back and laugh
But I fear tomorrow I’ll be crying
Yes, I fear tomorrow I’ll be crying
Yes, I fear tomorrow I’ll be crying
La confusione come epitaffio è un verso che sembra cucito proprio sull’approccio del romanzo ad una morte totale e molteplice, una morte che arriva incedendo di fronte al patto frantumato presente per l’appunto nel brano. Patti familiari, economici, amichevoli, tutto materiale di cui Cheon-Myeong-Kwan fa frantumi, in un crescendo di disperazione senza scampo. La storia raccontata in “Whale” è un rincorrersi di distruzioni e creazioni, rotture e rinascite.
Between the iron gates of fate
The seeds of time were sown
And watered by the deeds of those
Who know and who are known
Knowledge is a deadly friend
If no one sets the rules
The fate of all mankind, I see
Is in the hands of fools
I semi del tempo gettati e annaffiati contengono in loro i germi destinali degli incontri e delle casualità/casualità di cui il romanzo è disseminato, ma Cheon-Myeong-Kwan per non cadere nella amicizia mortale della conoscenza sregolata, detta legge. Il romanzo può essere letto sotto una lente giuridico-divina di leggi che dominano il mondo e che i personaggi del romanzo esperiscono e imparano man mano, a volte dalla parte della vittima a volte dalla parte del carnefice, con la microstruttura del testo che assume quasi la forma di piccole parabole.
When every man is torn apart
With nightmares and with dreams
Will no one lay the laurel wreath
When silence drowns the screams?
La dimensione onirica che spezza gli essere umani è in “Whale” quindi priva dell’azione salvifica del risveglio e si giunge ad una fine dove il silenzio che sopraffà le urla diventa la chiave di lettura, di un libro che nella ricerca di una pace ha usato come metodo la satira sul sangue.
E proprio come cantava in quel brano Greg Lake:
Sì, domani piangerai.