Irreale, fluido turbinoso. E dance, come solo suoni dal passato riescono a essere. Riuscendo a creare un varco temporale e a invadere il presente senza lasciare spazio a nostalgia o ricordi. Perché con le dieci frenetiche tracce di No geography, i Chemical brothers dimostrano che non ce ne è bisogno, anzi prepotentemente assicurano che non tutto è impossibile o superfluo nella musica. Anche se si è un duo britannico di musica elettronica al nono album nell’indiscussa epoca dell’indie rock.
È un lavoro, che come annuncia la laconica The eve of distruction apre alla distruzione. Quella del tempo come cronologia di una musica che cambia, senza preoccuparsi di essere troppo leggeri per un momento storico che, ancor di più nel loro Paese, di leggero ha solo la memoria. In cui rifugiarsi per scappare dalle paure di un domani che non ha coordinate, se non la volontà di opporsi a un oggi che delude.
Così Tom Rowlands ed Ed Simons dimostrano di fregarsene. Di non dover per forza essere quel vento di cambiamento. Di imporsi di essere diversi, maturi, sperimentali o sconvolgenti. Puntano a essere impetuosi, ripartendo da ciò che li ha sempre distinti e che sanno di saper fare bene: l’elettronica. Poco importa quindi che non siano il gruppo-novità dell’anno, quel ruolo lo lasciano a quanti rincorrono l’irriverenza musicale, cercando l’eccesso o la distopia a tutti i costi.
No geography, infatti, è la chimera di ricreare una condizione di spensieratezza scandendone le tappe con rumori robotici e le voci femminili della rapper giapponese Nene e della cantante norvegese synth-pop Aurora. Danno vita a una nuova battaglia nel duello atavico con i Prodigy, rispecchiandosi nel loro ultimo, e a questo punto, dopo la morte di Keith Flint lo è del tutto, disco. Anche per il titolo, contrapponendosi a etichette definite e condivise che categorizzano il mondo come se senza nomi non avrebbe senso. Per i Prodigy era un “no”alla vita da turisti, in questo caso lo è alla geografia che più di altri concetti tende a definire limiti e ambizioni di vite umane.
Così creano un rave continuo in cui nascondersi, assorbendo nella musica tutti i suoni dell’esterno, che assumono sempre più le sembianze di rumori. Con Bango, seconda traccia del cd, il cocktail allucinogeno è servito. Un drink che, prendendo spunto dall’alias di Stacey Pullen, techno producer, attirando a se, vuole liberare. «I’m falling fast in, in your eyes/I feel, I, I feel, that I might save you, save you», è una delle poche parti cantate.
Il tempo si cristallizza con la title-track dritta dagli anni 90. E torna il concetto di trarre in salvo, proteggere e soprattutto condurre lontano. Dove la geografia, persa in synth e motivetti, non c’è perché non c’è nulla di veramente concreto e misurabile. Con il trittico, seppur non tutto d’un fiato Got to keep on, Free yourself e Mah raggiungono l’apice della psichedelia mostrando di sapersi divertire. Con gli slogan ma soprattutto con la musica, in cui depongono tutte le loro armi.
Ma è in We’ve got to try che l’uotpia affronta la realtà, vincendola sul suo stesso campo. E così si rischia – e, ammetto, è un dettaglio del tutto autobiografico – di ritrovarsi in fila al bancomat e iniziarsi a muovere al tempo degli stacchi e dei cambi di melodia, che planano dall’intensità delle basi assillanti alle invocazioni cantate come un’iniezione di sano, e chiaramente insensato, ottimismo. «I know we can make it girl/Yes I know we can make it girl/If we just try/We’ve got to try/Got to find a way to me baby!».
Perché tutto dipende da quel che si cerca schiacciando il tasto play. Se ci si aspetta l’effetto sorpresa, meglio girare lo sguardo altrove ma se si sta rovistando nella memoria alla disperata ricerca di un luogo oltre le normali dimensioni dove mettersi in salvo, conoscendone bene gli spazi confortevoli, ecco No geography lo è. Per tutti i suoi 46 minuti, con il suo essere sfacciatamente dance ed elettronico e quelle note avvolgenti, come le braccia di Catch me I’m falling la traccia che fa calare il sipario. «You said, “Hide”/I’m in your arms and you’re inside of me/And I’m in your arms and you’re inside of me». Consapevoli che saranno sempre ad aspettarti, anche quando, dopo voglia di novità, ritorni sulla strada conosciuta.