Due anni dopo Hiss Spun, ritorna la cantautrice americana con un disco diverso dalla grandeur sonica a cui ci aveva ormai abituati. Birth of violence è infatti un lavoro meno pesante, nell’architettura sonora complessiva, dei suoi predecessori. Se in Hiss Spun e Abyss le composizioni di Chelsea Wolfe risentivano di un influsso doom e rumorista, con chitarre ipercompresse e batterie in primo piano, quest’ultimo lavoro è influenzato dal neofolk, e in generale da una concezione della musica solo apparentemente quieta e dimessa.
Se le dodici canzoni del disco sono praticamente tutte ballate acustiche, un sottile senso di inquietudine e di pericolo le pervade, sfociando in interessanti soluzioni sonore di complemento. Si pensi alla coda dell’iniziale The Mother Road, che sfocia in un crescendo quasi industrial, o al bordone di archi e chitarre che accompagna, neanche tanto sotterraneamente, l’ottima Deranged for Rock & Roll. O ancora, la spettrale Erde, dove l’apporto di fruscii e percussioni in lontananza, unito alla distorsione della voce e delle chitarre creano un paesaggio sonoro riconducibile all’estetica dark ambient. Non mancano comunque episodi più dolci, ballate come Be all Things o When Anger Turns to Honey che si rifanno al modello di un alt-country raffinato e che può richiamare, ad esempio, i Grant Lee Buffalo di Fuzzy.
In conclusione, il solido immaginario dark costruito da Chelsea Wolfe viene confermato in Birth of Violence, e si arricchisce di un’ulteriore interpretazione: meno piena e rumorosa ma più sottile, intima, e forse per questo, ancora più efficace.