Sembra esserci un passaggio obbligato quando si parla di personaggi millennial e, più nello specifico, di donne millennial: arriva sempre il momento Sally Rooney. Che venga usato nei lanci delle nuove uscite o come termine di paragone nella critica successiva, Rooney pare eletta all’unanimità come portavoce di un’intera generazione e tutte le autrici, in qualche modo, sembrano rifarsi a lei. Perché questa tendenza a individuare opere generazionali con valenza universale? Per una questione di spendibilità commerciale, certo, nonché per individuare un’unica voce rassicurante e riconosciuta che parli per tutti, liberandoci dal peso dell’intersezionalità. Ma la verità è che Rooney parla a e di una porzione di coetanee molto ristretta come a fette ristrette parlano gli altri casi editoriali che sono seguiti e che a lei sono stati collegati. Ottessa Mosfegh e il suo “ll mio anno di riposo e oblio”, Feltrinelli tradotto da Gioia Guerzoni, e “Le divoratrici” di Lara Williams, Blackie edizioni tradotto da Dafne Calgaro, per citare quelli meglio conosciuti anche nel mercato italiano. Parlare a fette ristrette di una generazione, però, non significa fallire nell’intento; Rooney, Mosfegh e Williams propongono ritratti legittimi, più o meno riusciti; dovrebbe essere la critica, piuttosto, ad ampliare il discorso e abbracciare la complessità di una generazione che ha punti in comune, ma più declinazioni differenti degli stessi problemi.
Anche la tv e il cinema hanno inseguito il racconto delle donne millennial, il loro nichilismo, il senso di catastrofe imminente che permea l‘intera generazione, e, soprattutto, la nuova libertà da conquistare. Si pensi alla Fleabag di Phoebe Waller-Bridge e la sua libertà di sbagliare (che poi, sbagliare secondo quale codice di comportamento? Quello del patriarcato più antico probabilmente), di cambiare, di sperimentare e risultare, senza particolari rimorsi, una donna difficile, direbbero, e per questo reale. Non è un caso se Fleabag e alcune delle protagoniste dei romanzi di Rooney rientrano nella stessa definizione di Dissociative Feminism, posteriore all’era delle girlboss, ma forse già nel pieno della parabola discendente. Un altro esempio più recente si trova in “The worst person in the world”, film di Joachim Trier candidato agli Oscar 2022, con la protagonista, Julie, che si inserisce nella narrazione di una contemporaneità molto meno lineare di quello che ci si aspetterebbe: abbandona quell’ambizione da angelo del focolare a cui le donne sono state relegate per secoli navigando tra relazioni zoppicanti e cambi repentini di idea, fino a un traguardo personale di indipendenza e, di nuovo, di libertà. Quello che c’è di comune a queste opere è la forma della protagonista: una donna millennial che sovverte i canoni e ne immagina di nuovi per vivere secondo le proprie regole, infischiandosene della normalità. Delle “everywoman”, donne generiche nell’accezione migliore del termine, prototipi che racchiudono caratteristiche di tutte e di nessuna, rassicuranti nella loro imperfezione lieve, come nel caso di Julie, o geniale come quella di Fleabag, o nichilista e distruttiva come la protagonista de “Il mio anno di riposo e oblio”.
Parliamo, però, sempre di donne bianche, eterosessuali, in contesti più o meno benestanti e sicuri. In questa omogeneità Rooney spicca salendo su un piedistallo ulteriore con la qualità di scrittura e lo spessore delle sue protagoniste: dotte e consapevoli, se non nelle relazioni, almeno del mondo politico e culturale che le circonda. Il ritratto che ne viene fuori è coerente, ma parziale e ripetitivo.
Chelsea Hodson, Stanotte sono un’altra
Ci spostiamo, allora, dal genere “Rooney” per compiere un passo laterale verso un altro tipo di millennial, quella che Chelsea Hodson racconta in “Stanotte sono un’altra”, tradotto da Sara Verdecchia per Pidgin. Un memoir in forma di saggi lirici imperfetto in certi frangenti, più solido in altri, ma con l’obiettivo finale di indagare la vita e i ricordi di una donna millennial, versione romanzata di Hodson stessa. Una voce non solida come quella di Rooney, imperfetta, ma capace di grande spessore nei punti più riusciti: indecisa ed estrema, un po’ Fleabag, un po’ Julie di “The worst person in the world”. “Stanotte sono un’altra”, però, è un memoir molto meditato, ben calibrato tra autofiction e riflessione filosofica, giunto nel mercato italiano per sparigliare le carte e spaventare chi, dell’autofiction, non ha ancora capito lo scopo evidente. Il personale è politico; il personale di Hodson è ancora più politico e radicale quando indaga il desiderio delle donne millennial statunitensi e la loro identità. Il racconto delle donne millennial non solo è davvero un genere, ma anche un passo necessario che deve prescindere dall’idolo letterario del periodo.
Sedici saggi in tutto, alcuni in forma narrativa, altri raccolta di frasi e pensieri. In “Pietà per l’animale”, pubblicato originariamente come chapbook nel 2014, Hodson racconta il suo periodo a New York e l’incontro fortuito con Marina Abramović, artista con la quale collaborerà nella successiva installazione “Generator”. In quello stesso anno Hodson metteva insieme il suo progetto “Inventory”, in cui catalogava con foto e didascalie oggetti della sua casa, e culminato con una lettura lunga sette ore di tutto il materiale prodotto. Un progetto che fondeva più mondi, quello fisico e digitale, e che la portava alla ribalta della scena artistica underground.
In “Lettere rosse da un pianeta rosso” Hodson sovrappone l’amore per Cody, un uomo alto con «una postura terribile, come se non si fosse mai propriamente evoluto», all’atterraggio del Phoenix Mars Lander della Nasa su Marte. È il 2008, Hodson lavora come assistente al responsabile delle PR del progetto Phoenix, e mentre scrive didascalie e condivide foto con la stampa, ricostruisce la sua relazione e il rapporto con gli uomini.
Questi erano uomini che si innamoravano, ma non perdutamente, che cercavano una madre ma non per davvero, che volevano una puttana ma non in ogni momento, che volevano fossi nella stanza ma che restassi in silenzio, e a me piaceva cercare di essere tutto contemporaneamente.
In “Sono a mille miglia di distanza” Hodson è ragazzina, si innamora di uno degli Hanson e poi di Nick Carter dei Backstreet boys e costruisce un parallelo tra la sua esperienza come fan, il film horror tedesco “Der fan” e l’esperienza personale con uno stalker. In “Gonfia e vittoriosa”, ancora, Hodson esplora il confine tra amore e violenza in una relazione estrema da lei fortemente desiderata.
Ho avuto mani strette attorno al collo che dalla lussuria passavano alla violenza. Sapevo di poter morire, ma sceglievo di non lottare. La sopravvivenza del più forte – un gioco al quale non tutti scelgono di prendere parte. Credevo che se lui si fosse sentito invincibile, allora il gioco sarebbe finito. Ecco quanto amo il mondo – accetto l maia mortalità, la mia temporaneità, la mia debolezza, la mia scelta di essere tenuta in una morsa, di scomparire.
L’altro elemento chiave di questa raccolta di saggi è il potere dell’arte e la scrittura, e qui si ritorna un po’ nel mondo di Rooney così saldo sulla cultura. Hodson, però, compone una chiave di lettura ulteriore, meno sapiente di Rooney e più personale, tanto da scrivere in “Dichiarazione d’artista”:
Sto cercando di scrivere della mia vita prima che sia troppo tardi. […] Non riesco a staccarmi di dosso la sensazione di timore per quello che verrà fuori: chi sarà il prossimo a restare ferito, chi tradirò, in quale mondo sconfinerò questa volta. Quando ho detto a un amico che ero a corto di idee, lui mi ha risposto, Scrivi del non avere idee.
Cosa c’è di letteratura millennial, allora, in Hodson? C’è l’incapacità di decifrare un futuro che sembra lontano, il rapporto incrinato con un paese, gli Stati Uniti, che hanno distrutto a martellate il loro stesso mito, c’è lo smarrimento nella scrittura frammentata di alcuni saggi, ma anche la consapevolezza del potere dell’arte. Hodson si scruta e interpreta sé stessa e chi ha intorno, fino allo sfinimento, fino a raggiungere una verità soddisfacente per lei, anche se non per tutti.
Guardo l’America per prendere spunto e non sono all’altezza. Come donna, penso che dovrei essere in forma ma etera, premurosa ma seducente, innocente ma indipendente, e bella senza alcuno sforzo. ormai dovrei avere dei figli, essere sposata e possedere una casa, dovrei far diventare l’arte un mio hobby e non maia ragione di vita – sarebbe meglio per i soldi, per una sicurezza, per comprare cose che si suppone io desideri.
In conclusione
La scrittura delle donne millennial si delinea ancora, prende forma e si distanzia da quell’urgenza di trovare idoli e repliche. Affonda le radici nell’autofiction, si interroga senza darsi risposte definitiva sul confine tra ricordi e fiction, trova a suo modo una verità letteraria nel “what if”, di cui Hodson abbonda nella sua scrittura. Ma siamo ancora in una fetta bianca e omogenea dell’indagine generazionale, il cui manifesto è una spietata analisi dell’individuo che alterna momenti lirici a disordine e poca organicità, ma sempre naturale nel creare quell’illusione di essere scritta nel momento in cui la si legge. Hodson ha un merito interessante: si tira fuori dalla generalizzazione. La sua eroina, cioè Hodson stessa, non è una “everywoman”, ma ha una identità ben precisa ancora da esplorare che scruta fino all’ultima pagina e che abiterà a lungo la testa di chi la legge.
Per approfondire
Messy woman in literary fiction
The Worst Person in the World Is Like Fleabag Meets a Sally Rooney Novel
The “Fleabag” Era of Dissociative Feminism Must End
The Smartest Women I Know Are All Dissociating
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