Nel Sessantotto in Francia c’era ancora la pena di morte per ghigliottina, per i francesi il metodo meno doloroso per uccidere un uomo. Mette i brividi pensare che l’arma con cui i rivoluzionari francesi avevano sovvertito la monarchia, fosse ancora in uso nel cuore dell’Europa fino a cinquant’anni fa. Nella stagione del Maggio francese a nessuno venne in mente di usare la ghigliottina per sovvertire il potere. E così nella nostra memoria il Sessantotto è diventata la “rivoluzione mancata”, anche se a quella stagione di utopie e sogni contagiosi, mancavano i connotati di una vera e propria rivoluzione. La rivoluzione non è un pranzo di gala, l’appunto di Mao sul libretto rosso ricorda che la rivoluzione è violenta, che a ogni rivoluzione segue un ribaltamento dell’ordine. La rivoluzione francese è il compimento della vittoria della borghesia sull’aristocrazia francese e i suoi valori: quei valori “rivoluzionari” attraversarono poi l’intera Europa. Per far crollare le monarchie però ci volle più tempo.
Il Sessantotto segnò un improvviso risveglio della stagione dei movimenti, anche se quel vento aveva soffiato per gli interi anni Sessanta. Negli Stati Uniti la forza dei movimenti si mescolò alle lotte pacifiste contro la guerra del Vietnam e a quelle per i diritti degli afroamericani. In Europa le occupazioni studentesche e i movimenti operai trovarono ispirazione nelle esperienze della rivoluzione culturale maoista e nella lettura di Adorno e Marcuse: luoghi come l’università di Nanterre divennero i centri propulsivi di un discorso che stimolava a riflettere su errori e orrori di un sistema. La sommossa doveva partire non solo dalle università e le classi intellettuali, ma anche dagli operai, per far convergere i movimenti su obiettivi comuni – e così anche le sedi di Renault e Fiat diventarono i luoghi di quell’immaginario che provò a scuotere il mondo. Mentre i ragazzi nelle università francesi e italiane leggevano Mao e Lenin, a Praga si combatteva un’altra battaglia di libertà contro il potere sovietico che metteva a tacere la gioventù della Primavera di Praga con i carri armati e la forza. Che Guevara era morto l’anno prima, in Bolivia.
Mappa del 1968, infografica cliccabile di Maurizio Vaccariello
Lo sguardo del generale De Gaulle nel maggio francese doveva essere preoccupato: dopo Nanterre gli studenti avevano occupato la Sorbona, le persone si riversavano in strada per protestare, gli slogan impazzavano e il movimento operaio contribuiva ad alimentare il clima di insurrezione nei confronti del potere proclamando massicci scioperi generali. Ma quel maggio rivoltoso si scontrò presto contro il suo amaro sogno infranto, cedendo al potere delle concessioni degli Accordi di Grenelle e all’aumento dei salari. Il sistema vinceva, rovesciarlo non era poi così conveniente, il vagito del proletariato rivoluzionario si assopiva al cospetto del gollismo.
In Italia invece la stagione dei movimenti dei Sessantotto prenderà una piega diversa. «In quel periodo i gruppi di estrema sinistra italiani non avevano tutti la stessa visione», ci racconta Enza Adragna, che ha vissuto la stagione dei movimenti studenteschi nel Sessantotto a Palermo. «Io ero vicina a Lotta Continua, che aveva una visione più intellettuale, mentre il mio compagno Attilio si era avvicinato a Potere Operaio, un gruppo più istintivo, che covava un elemento di rabbia maggiore. Lotta Continua non aveva quella vocazione alle armi, mentre Potere Operaio e altri gruppi sì, erano orientati verso quella soluzione. In quel contesto anche le Brigate Rosse hanno estremizzato la situazione». Nel ’68 italiano Enza frequenta uno dei migliori licei classici di Palermo, fortemente politicizzato – in quel liceo si formeranno anche alcuni esponenti delle Brigate Rosse. «Sai», mi dice, «per quei tempi Renato Curcio e la sua compagna erano intellettualmente o romanticamente attraenti, coinvolgenti. Dico romanticamente nel senso lato del termine ovviamente, per farti capire come quella coppia fosse vista come un simbolo romantico all’epoca. So che questo termine – romanticamente – forse non verrà compreso, ma non bisogna essere mai troppo rigidi nella visione del mondo». Da qui la storia italiana prosegue con alcuni dei suoi misteri più convulsi e irrisolti, al ritmo di bombe, rapimenti, arresti, stragi. Anche il marito di Enza, Attilio, viene coinvolto in uno scontro con la polizia durante un comizio a Potere Operaio: fuggirà a Bologna per nascondersi, ma poi le accuse contro di lui cadranno.
«Ci vedevamo a turno nelle abitazioni dei compagni di Lotta Continua per le riunioni» – Enza ricorda, ricorda un tempo che forse non c’è più, oppure è ancora lì che si aggira, con la stessa forza delle parole di Lacan e Bertrand-Henry Lévi, il sogno di cambiare il sistema, le pagine del quotidiano di Lotta Continua su cui un giovane idealista di nome Adriano Sofri accese il dibattito sull’omicidio dell’anarchico ferroviere Pinelli – pagine per cui scontò anni e anni di carcere.
50 anni dopo
Le università sono occupate dagli studenti, alcune fasce di lavoratori proclamano un’ondata di scioperi. Non è il 1968 ma il 2018: esattamente cinquant’anni dopo qualcuno evoca lo spettro del maggio francese, ma all’Eliseo non c’è più il generale De Gaulle, il Presidente di Francia ora è Macron. Agli studenti francesi Macron non piace, preferiscono accompagnare per le strade Mélenchon e i suoi insoumis, perché in quella “insottomissione” vedono una speranza. «Sappiamo tutti che Mélenchon è un politico e pensa alle poltrone, ma la base del movimento degli insoumis ha le idee giuste» – Sasha è uno studente italiano di 24 anni che ha deciso di studiare a Parigi, dove milita nella sezione marxista internazionale. Ci racconta come è nata questa nuova ondata di proteste in Francia. «Tutto è iniziato con lo sciopero degli cheminots, i ferrovieri, che protestano per il patto ferroviario che mira a distruggere alcuni vantaggi come pensione anticipata e l’erosione del salario. Il patto ferroviario che vorrebbe Macron mira a privatizzare il trasporto pubblico, e le privatizzazioni colpiranno anche sanità pubblica e istruzione». La parola d’ordine è: greve. «Mano a mano altri settori di lavoratori si sono uniti alla lotta, fattorini, lavoratori impegnati nel settore della logistica, e poi gli studenti naturalmente, anche loro vittime di riforme. In tutto il paese c’è una convergenza delle lotte, perché sono tutti vittime dello stesso tipo di politiche».
A Sasha chiedo se le riforme di Macron non ricordino quelle del governo tecnico di Renzi in Italia. «Certo», mi dice, «le riforme a livello nazionale sono state pianificate più o meno esplicitamente a livello europeo, fanno tutte parte delle riforme di austerità per fronteggiare la crisi. La loi travail francese è il jobs act italiano, per esempio, e poi anche qui c’è la buona scuola, a suo modo». Sasha è preoccupato per l’arrendevolezza con cui tutti continuano ad accettare un sistema che riproduce diseguaglianze, mandando avanti la propria vita. «A Milano questa sollevazione sarebbe stata impensabile», mi confessa con amarezza. Gli chiedo se il Movimento 5 Stelle non abbia finito per agire da tappo al dissenso concentrando tutto quel grande potere che è la forza della contestazione verso le auto blu, e non le lotte sociali. «In paesi come Italia e Stati Uniti il populismo ha vinto impedendo che un partito di massa di sinistra vero, con spunti rivoluzionari, potesse nascere», aggiunge Sasha, che però resta ottimista sul futuro di questa stagione.
Tuttavia il numero di persone che partecipano ai movimenti studenteschi e agli scioperi è decisamente minore rispetto al ’68: anche se nella primavera di quest’anno università come Tolbiac, Nanterre e Censier vengono occupate in forma di protesta contro le riforme universitarie – e in alcuni casi sgomberate dalle forze di polizia, molti studenti non aderiscono alle proteste. In realtà tutti si domandano se alla fine potranno sostenere o meno gli esami di fine anno.
Femministi, ecologisti, connessi
Ma dove sono i trentenni?, chiedo a Paul e René, entrambi studenti universitari molto attivi in questa primavera di mobilitazione a Parigi. Come mai i trentenni non partecipano alla mobilitazione? I ferrovieri e le classi lavoratrici hanno in media quaranta, cinquant’anni, gli universitari venti. I trentenni dove sono? «Ci chiediamo la stessa cosa da tempo», dice René, «e siamo arrivati alla conclusione che i trentenni vogliono solo starsene in pace, farsi una famiglia e avere una casa. Ne sai qualcosa?», mi chiede ironicamente. Rido con una certa amarezza, ma non riesco a negare che la mia generazione è una generazione di scettici e nichilisti, che ha lasciato andare sogni e idee. Per un po’ mi attraversa il doloroso senso di colpa di tutta la mia generazione, che ha letteralmente abbandonato i ventenni e noi stessi di fronte al futuro.
Paul di anni ne ha venti, e tutto l’entusiasmo è dalla sua parte. Parla dei nuovi valori che si fanno largo tra i suoi compagni: «Il movimento del Sessantotto restava un movimento piuttosto maschilista, con noi invece sono attive in prima persona molte donne. Siamo femministi. E poi abbiamo una maggiore sensibilità rispetto alle tematiche ambientali. Usiamo la rete, grazie a internet riusciamo a creare dei gruppi di interesse e azione». Femministi, ambientalisti, connessi, informati. La nuova gioventù si fa portatrice di nuovi valori, con cui spera di sovvertire le regole del gioco capitalistico, e di quell’Europa figlia dell’austerity. Il sogno di Paul è quello di terminare gli studi e diventare sindaco di una piccola cittadina francese in cui poter sperimentare un vero e proprio sistema alternativo al modello capitalistico: una cittadina che produce i suoi beni e servizi, dedita all’autoconsumo, un microcosmo che si auto-sostiene con i suoi prodotti – anche quelli della terra. Uno dei padri ispiratori di questo modello è il federalismo del filosofo francese e anarchico Proudhon.
René è più scettico di Paul rispetto al futuro di questo movimento. È un inizio, ma non si tratta di una rivoluzione – dice dubbioso. René pensa che non ci sia la forza di ribaltare il sistema, i numeri di partecipazione al movimento sono bassi, nettamente inferiori rispetto a quelli del Sessantotto francese: è solo una sommossa di dissenso nei confronti delle riforme di Macron e delle liberalizzazioni. Ci vuole una piattaforma più europea per fare davvero qualcosa. «Il movimento non è nemmeno unito», aggiunge, «gli studenti supportano le lotte dei ferrovieri, ma al contrario la solidarietà viene a mancare. Bisognerebbe stare uniti, creare concertazione, guardare tutti verso la stessa direzione».
Del resto questa direzione comune, questo stesso sguardo al futuro anche nel Sessantotto non era chiaro: c’è sempre stata una diffidenza reciproca tra mondo universitario e mondo operaio, come ha ricordato la signora Enza. «Tra studenti e operai c’è sempre stata un’alleanza fittizia, gli studenti erano più vicini al mondo intellettuale e gli operai non avevano certo questi riferimenti. Durante le riunioni nascevano contrasti, discussioni: l’obiettivo era uguale ma i metodi diversi, gli operai avevano un approccio più pratico rispetto agli studenti infarciti di letture». Nella Palermo dei tardi anni Sessanta gli studenti mobilitati leggevano i nuovi filosofi francesi, si perdevano in riunioni e conferenze, stampavano articoli a proprie spese, si incontravano a La Base, centro sociale e culturale che organizzava concerti (Claudio Lolli, Pietrangeli) e proiezioni di film. C’era anche una comune femminista a Palermo in quegli anni, che attirava sociologi e intellettuali da tutto il paese.
Nel 1968 all’Università di Bologna arriva addirittura Sartre per parlare con gli studenti durante l’occupazione. Enza ha partecipato all’occupazione dell’Università di Bologna: «Immagina tutta Piazza Maggiore e i portici occupati. C’erano intellettuali da tutto il mondo, e il movimento degli Indiani Metropolitani, gruppi di estrema sinistra o anarchici. Poi arrivarono i carri armati e la polizia armata, e quello fu un momento di confusione, ci fu della violenza in quelle calde giornate, ma noi – davvero noi speravamo di cambiare il corso delle cose. Eravamo convinti – in quei giorni – di poterci riuscire, anche quando le speranze ne uscivano fuori un po’ frustrate. Capivamo che era difficile vincere questo sistema, e quando ogni tanto qualcuno ci lasciava, se ne andava, ci rinunciava, noi restavamo soli a riflettere».
E quindi: qualcosa resta?
Qualche mese fa Paul è stato in Italia per incontrare i militanti di Potere al Popolo, la formazione di sinistra con cui Mélenchon ha stretto un accordo poco prima delle elezioni italiane. Comunicare, scambiare idee, creare piattaforme e visioni comuni in tutta Europa – in questa fase, sembra fondamentale. «La Francia da sola non può fare nulla», ricorda Sasha, «com’è sempre stato». Sasha però nei confronti di PAP nutre meno speranze, vorrebbe un soggetto di massa, capace di raccogliere intere classi sociali e mobilitare verso un’utopia comune.
Forse se ancora siamo qui a parlare di Sessantotto è perché quella stagione ci ricorda la nostra infanzia e la sua estrema libertà. Ci ricorda che senza contestazione questo mondo sarebbe la piatta narrazione di un potere e di un consenso che riproducono se stessi. Ci solleva dalla terribile resa, ci mette a fare il tifo, e supportare quegli esperimenti, quei nuovi valori, le ipotesi future. Cinquant’anni dopo il ’68 le disuguaglianze continuano a riprodursi, acuite dalla rivoluzione digitale, ma da una generazione all’altra il sogno di dare una sterzata al sistema non si è mai infranto. Le voci dei suoi protagonisti si uniscono e risuonano nella testa come un canto corale, e allora sembra di sentir sussurrare: un giorno quel Sessantotto sarà possibile.