Fernando Rennis è un giornalista musicale con alle spalle già vari libri che esplorano alcune delle pagine più importanti della storia della musica contemporanea. Da poco ha dato alle stampe per Nottetempo Charming men, una storia degli Smiths che segue la loro fulminea e luminescente parabola che in pochi anni e con una manciata di album è stata capace di influenzare le generazioni a venire.
Con L’indiependente lo abbiamo intervistato per farci raccontare come è nato questo libro che sta già andando in ristampa.
Il giornalista inglese Mark Simpson, nel suo libro “Saint Morrissey” (Arcana 2009) racconta di come durante gli anni randagi della sua giovinezza fatti di sussidio per la disoccupazione e pomeriggi noiosi passati ad oziare, un giorno vide a Top of the Pops un’esibizione che gli cambiò letteralmente la vita. Quattro ragazzi di Manchester – con un nome che più ordinario non si può – stavano riscrivendo la storia della musica britannica e non solo con il loro singolo This Charming Men, il cantante sventolava un mazzo di gladioli ed aveva una voce e dei modi magnetici. Quando sono entrati gli Smiths nella tua vita, e come l’hanno cambiata?
Essendo nato l’anno dopo il loro scioglimento non ho mai avuto la possibilità di vederli in diretta. Se Simpson li ha scoperti tramite Top of The Pops per me il parallelo è stato MTV Brand New dove un giorno, tenendola in sottofondo, carpisco una citazione di Oscar Wilde che mi fulmina. Me la appunto e mi fiondo in libreria a cercare libri suoi. Il caso vuole che il giorno dopo in un video che passavano sempre su Brand new vedo il faccione di Wilde, il video era quello di Stop me. Da allora sono caduto mani e piedi nel mondo Smiths.
Nella prima domanda citavo il libro di Simpson, ma la bibliografia che riguarda la band mancuniana è sconfinata. Come si trova il coraggio ma soprattutto la chiave di lettura giusta per aggiungere un nuovo tassello ai fiumi di parole spesi su una delle band alternative più amate della musica moderna?
Per gli Smiths vale il discorso che si fa spesso coi Velvet Underground secondo il quale quei pochi che hanno ascoltato veramente il loro primo disco hanno tutti fondato una band. Così con la band di Manchester sono partito dalla ricostruzione di come la stampa italiana ha accolto la nascita e l’ascesa di questo gruppo. A me interessava innanzitutto restituire il contesto, tutta la narrazione avviene in sincrono in modo da smontare l’aura mitologica in cui è avvolta la band. Molte canzoni degli Smiths nascono da quello che succede loro, da citazioni prese da film in tv, fatti di cronaca (Panic) o eventi che segnavano la vita economica e politica del paese. La restituzione del contesto rende questa band profondamente umana, impregnata della realtà circostante. Se guardiamo ad esempio tutto il terremoto che ha creato la Brexit è coinciso con il rifiorire delle band in terra d’Albione. I giovani hanno reagito ritornando nelle sale prove e uscendo con musica potentissima. Poi nel contesto delle pubblicazioni legate alla band di Manchester credo mancasse un libro capace di ripercorrere la loro storia dall’inizio alla fine, perché molti di quelli in circolazione erano usciti o troppo tempo fa o semplicemente scandagliavano aspetti laterali della loro avventura.
A proposito della composizione del tuo libro, se c’è una cosa che spicca più delle altre è come Morrissey e soci fossero esattamente il prodotto del loro tempo senza però essere allineati ai giusti artistici imperanti. L’artista spesso è colui che riesce a vedere e a descrivere quello che tutti abbiamo sotto gli occhi senza accorgercene. Nelle pagine del tuo libro ogni evento riferibile alla band trova una genesi nel contesto socio-politico che li circondava, quanto è durato il percorso di ricerca e come hai organizzato tutto il materiale in modo da renderlo così immediatamente organico alla narrazione?
Il contesto è stato il punto di partenza ed anche il perno centrale a cui si è affiancata la voglia di aggiungere qualcosa ai libri classici come quelli di Ballani e Alberto Campo che si concentravano sulla parte testuale della band. Sicuramente Charming men non poteva nascere senza leggere questi appena citati e molti altri, non a caso la parte documentale è durata quasi un anno e mezzo. In Italia è stato complicato tornare indietro nei numeri storici delle riviste come Buscadero e Rockerilla, senza parlare delle fanzine. All’estero invece è tutto molto più semplice, ad esempio il Manchester Archive è una fonte incredibile di informazioni. Poi, cosa fondamentale, sono andato a parlare con i diretti interessati. Alcuni come Fletcher mi hanno detto che non volevano più sentire parlare degli Smiths e un po’ lo capisco ma persone come Geoff Travis e Simon Reynolds sono stati preziosissimi. Al netto di quanto siano importanti questi nomi citati ho trovato una grande disponibilità, specialmente all’estero nel raccogliere interviste sul tema del libro. Specialmente Travis è stato una miniera di aneddoti che mi hanno permesso di avere con lui una lunghissima intervista in cui mi ha raccontato tantissime cose pur cercando di tenere una distanza da quel periodo che per lui non è finito proprio benissimo. Con lui è stato interessante ricostruire tante cose ed è stato molto onesto nel ripercorrere quei momenti.
Il percorso breve ma molto intenso ci restituisce una band in cui l’amicizia era un valore assolutamente secondario rispetto alla voglia di esprimersi e creare qualcosa di non solo artisticamente rilevante ma soprattutto gratificante per la grandissima voglia che avevano Marr e Morrissey di esprimere le loro personalità. Lo possiamo vedere anche attraverso il percorso di pubblicazione di album e singoli non esattamente ordinato. Il tuo libro, tra gli altri meriti, riesce a mettere ordine in una selva di pubblicazioni che spesso disorienta i fan meno scafati. Che tipo di avventura discografica è stata quella degli Smiths rispetto ai loro contemporanei?
In qualche modo si può dire che gli Smiths siano un gruppo costruito a tavolino da Marr che va letteralmente a prendere Morrissey fino a casa. Marr trova il primo manager e anche il resto della band tramite amicizie e conoscenze in comune. Marr è il factotum al punto tale che poi quando esce dal gruppo fa collassare la band. In questo e in tante altre cose gli Smiths sono una band atipica, basti pensare al fatto che nonostante vivessero nella scena musicale mancuniana erano una band che non condivideva la sala prove con nessuno ma soprattutto un gruppo in cui dopo aver provato ognuno dei quattro se ne tornava a casa per conto proprio. Forse una delle poche band entrate nella storia che non condivideva la famosa pinta al bar dopo le prove. Ti dirò di più, a parte le primissime canzoni che Marr scrive insieme a Morrissey poi il sistema diventa abbastanza rodato ovvero Marr lavora per conto suo col quattro piste, scrive musica a getto continuo che poi manda a Morrissey che ci mette su le parole. Loro volevano essere i più grandi ma volevano esserlo alle loro regole e ciò si rispecchia nella qualità e nella quantità con cui scrivono tante canzoni di successo in così pochi anni. Marr trova in Moz una persona ossessionata dal fare musica ed avere successo come lui, forse è questa prima di molte altre ragioni per cui si sono trovati così bene insieme anche se questa parabola per forza di cose non poteva durare in eterno.
La storia discografica degli Smiths ci racconta anche di come il mondo della musica alternativa, incarnato dalla loro etichetta Rough Trade, fosse qualcosa di contemporaneamente eroico ma anche assolutamente fragile. Secondo te lo scenario della musica alternativa rispetto a quei tempi pioneristici è molto cambiato? E se sì, in cosa? Pensi che se al famoso bivio della loro genesi avessero optato per una label più solida la loro storia sarebbe stata diversa?
Loro fanno parte indiscutibilmente del circuito indie. A livello internazionale la nascita del movimento indie è ricondotto a due band, gli Smiths e i R.E.M. non a caso anche nella loro diffusione in America le college radio hanno avuto un ruolo fondamentale. Tra i vari college le scuole d’arte, anche in Inghilterra sono stati quelli che hanno costituito il loro zoccolo duro nella creazione di una fan base. Il circuito delle School of art è stato alla base della diffusione del passaparola e soprattutto della contaminazione non solo musicale ma artistica a 360 gradi. Gli Smiths facevano della coerenza il loro carattere distintivo, dallo schierarsi al fianco dei minatori allo scegliere un’etichetta indipendente, dall’opposizione a Margaret Thatcher fino alla loro malcelata nostalgia per un’Inghilterra che fu e ciò lo rivediamo anche nell’estetica che contraddistingue le copertine dei loro album. La gioventù inglese, e non solo, trova in loro un punto di riferimento nelle lotte sociali e politiche declinate con la letteratura, la poesia e lo sventolare di gladioli. Relativamente ai bivi della loro storia discografica la scelta di restare con la Rough Trade rientra pienamente nell’identità di Morrissey e Marr anche se poi loro firmeranno con la EMI salvo poi sciogliersi prima di fare alcunché con una Major. Di fatto le etichette indipendenti finiranno per diventare degli “scovatalenti” che poi prepareranno a sbarcare sulle etichette maggiori. Destino discografico che dopo gli Smiths seguiranno tantissime altre band seguendo un’evoluzione del mondo discografico che si assesterà su questa dinamica industriale. Non a caso anche gli R.E.M. da capostipiti dell’indie poi sono approdati a una Major. Questo, ad esempio, è uno dei motivi per cui i Radiohead decideranno di firmare direttamente con una Major, sapendo benissimo il percorso che avrebbe preso la loro carriera discografica.
Nel libro, ma anche nella storia della band c’è un quinto componente che è assolutamente presente, la città di Manchester. Posto mitologico che ha fatto da cantiere per una scena musicale capace di influenzare tutto il mondo per anni ma che non ha mai indugiato a cullarsi sugli allori. Penso alle pagine che raccontano dell’Hacienda che muoveva i primi passi, dei Joy Division, fino ad arrivare agli Oasis. Tanti lavori precedenti ne hanno parlato, da Happy Diaz di Massimo Palma fino a film come 24 hours party. Quanto, secondo te, trovarsi a Manchester ha aiutato la nascita di una storia come quella degli Smiths e di tanti altri gruppi di culto pur restando sempre proiettata al futuro?
Manchester, storicamente, è sempre stata una città d’avanguardia. Lo stesso Peter Saville era ossessionato dal futurismo. Prima città industriale del mondo e prima città a schierarsi per la liberazione degli schiavi. Negli anni ‘70 anche Manchester ha vissuto l’inizio dello smantellamento industriale e della crisi dello stato sociale. Il suicidio di Ian Curtis in qualche modo aveva paralizzato la città che negli anni ’80 riprende a macinare futuro. Stephen Morris dei Joy Division ricorda sempre che i fan di Ian Curtis arrivavano ai concerti dei New Order vestiti come il frontman dei Joy Division a chiedergli conto del suicidio di Curtis. Ricordiamoci che all’epoca di quei fatti avevano tutti più o meno vent’anni e non potevamo fare altro che andare avanti. Nell’86 c’è il famoso Festival of the Tenth Summer che celebra i dieci anni dall’estate del ’76 che vide l’esplosione dei Sex Pistols a Manchester. Quello è un punto di svolta in cui la città riparte, un tassello fondamentale è l’Hacienda che intercetta band come Stone Roses e la nascente acid house con gli Happy Mondays. Poi arriveranno gli Oasis, le Universiadi e tanti altri eventi che confermano Manchester come la città del Never look back. Una fucina in grado di plasmare tutto. Di certo alcuni tratti fondamentali come il suono e l’estetica di Joy Division identificano la città come un unicum nella storia della musica internazionale. Di certo la storia della città ha contribuito alla nascita degli Smiths senza contare quanti episodi di cronaca sono confluiti nei testi di Morrissey – pensa al titolo dell’ultimo loro album, solo per citarne uno.
La storia spesso fa il giro e riparte dal Via. Nello scenario musicale odierno fatto di lotte sociali altrettanto dure rispetto a quelle che hanno sconvolto l’Inghilterra e l’Europa negli anni 80, quali potrebbero essere gli ideali eredi di Moz e soci?
Io credo che dal punto di vista musicale nessuno si sia mai avvicinato alla genialità di Johnny Marr. Il suo modo di scrivere e creare musica, pur se pescando da molte influenze a lui vicine, riesce a definire un sound e una cifra stilistica di assoluta qualità. Questa sua poliedricità sarà fondamentale nella sua avventura musicale post Smiths. Così anche per le liriche di Morrissey è difficile, se non impossibile, ritrovare degli epigoni puri e semplici di Moz. Penso però a due esempi, musicalmente lontanissimi dagli Smiths, ma che mi rimandano alla loro storia per l’attitudine. Il primo sono i Fontaines D.C. Grian Chatten nel suo modo di scrivere mi rimanda spesso al Morrissey più maturo. Sono una band politica come lo erano gli Smiths, non scordiamoci che tutti e quattro gli Smiths erano di origini irlandesi, cosa che condividono con i Fontaines. L’altro esempio che mi viene in mente è Billie Eilish, anche qui apparentemente lontanissimo dalla band di Manchester, ma che condivide con loro il mettere al centro l’ordinarietà. Gli Smiths, a partire dal loro nome, furono tra i primi a dire che va bene essere normali, e se pensiamo ad una pop star moderna l’immagine di Billi Eilish lancia proprio questo tipo di messaggio.
Guccini ne “La locomotiva” dice che gli eroi son tutti giovani e belli, e in effetti se la fotografia degli Smiths fosse rimasta ferma ai loro brevissimi e folgoranti anni di attività il quadro eroico riferito a Morrissey e Marr sarebbe inscalfibile. Con gli anni però i due se ne sono dette di tutti i colori ma soprattutto il leader della band ha fatto tutto il giro assumendo spesso posizioni che lo fanno sembrare oggi anni luce lontano dalla figura che era emersa come Working Class Hero negli anni ’80. Come descriveresti l’evoluzione personale e artistica delle due anime degli Smiths?
Il libro per forza di cose si chiude con la fine del gruppo, non volevo entrare nelle beghe legali che hanno segnato tutta la storia post Smiths che è stata davvero triste. Nella parte iniziale però qualcosa viene detta, rimangono quelle poche ore del dicembre 2010 che hanno catapultato questo gruppo nell’eternità molto più di quanto avevano fatto i loro pochi anni di attività. Il premier Cameron ha uno scambio con la deputata laburista Kerry McCarthy utilizzando le canzoni degli Smiths e il giorno dopo i ragazzi scendono in piazza per protestare contro l’aumento delle tasse universitarie e una ragazza viene immortalata con indosso una maglietta degli Smiths mentre fronteggia un poliziotto in tenuta antisommossa. Quello forse è stato il momento di massima vicinanza tra Morrissey e Marr che si ritrovarono convergenti sulla potenza della loro musica che ancora riusciva a ispirare le giovani generazioni.
Gli Smiths e il nostro paese hanno avuto una storia fatta di incroci e destini strani, non a caso quella dell’87 a Sanremo fu la loro ultima esibizione dal vivo insieme. Inoltre, quello dell’85 a Roma è stato l’unico e rocambolesco concerto dei quattro ragazzi di Manchester nel nostro paese. Nonostante ciò, l’Italia ha sempre subito profondamente il fascino di questa band e a sua volta anche Morrissey ne è stato attirato fino ad abitarci. C’è qualche germe degli Smiths sbocciato nella musica italiana a tuo parere?
C’è una cosa che dico sempre alle presentazioni, una band su tutte mi ricorda il percorso di Morrissey e Marr, a partire dal modo di comporre canzoni, passano per la qualità dei testi ed anche in qualche modo il percorso politico e di vita che il loro frontman ha seguito nel corso degli anni. Chiaramente quella band sono i CCCP, poi Csi e PGR. Il percorso di Giovanni Lindo Ferretti ricorda tantissimo quello di Morrissey e dall’esterno molte sue scelte negli anni recenti hanno destato più di una polemica da parte dei suoi fan storici. Ma se si analizzano le dichiarazioni di Morrissey e quelle di Ferretti, se si guarda alle loro radici, alle loro storie familiari e al loro percorso di vita è tutto assolutamente coerente con i personaggi in questione, per entrambi in qualche modo è un ritorno alle loro radici.
Infine, una nota personale. So che non è semplice e magari è anche scontato fare classifiche, ma nel tuo rapporto con la band mancuniana sapresti fare una Top five, tanto per citare Hornby, dei tuoi brani degli Smiths?
Innanzitutto devo dire che il libro si chiama Charming men perché tutte le persone che ho intervistato mi hanno sempre parlato per prima di questa canzone dicendo poi tutti la stessa cosa, ovvero che quando li videro a Top of the pops sembravano sbucati dal nulla, per questo non posso non citarla anche io. Dal canto mio ti dico subito invece How Soon Is Now?, ritengo che lì gli Smiths erano al loro top perché c’è Joyce che viene dal punk e con la sua batteria è potentissimo, Rourke col suo basso ci costruisce sopra una gabbia all’interno della quale le chitarre lancinanti di Marr sembrano dei lampi nel buio, poi arriva la voce di Moz e il capolavoro è servito. Quando la becco la voglio sentire sempre tutta. Stop Me per i motivi di cui abbiamo parlato all’inizio poi senza dubbio Bigmouth Strikes Again che per me è veramente incredibile. Alla fine ti dico The Queen Is Dead, penso che avrai capito qual è il mio album preferito della band probabilmente. Tra l’altro a proposito di canzoni degli Smiths scrivere il libro mi ha portato ad ascoltarle ossessivamente in modo analitico e questa attività mi faceva perdere molta della parte emotiva legata ai loro brani e quindi quando poi ho messo la parola fine ed ho beccato Please Please Please sono tornato a riascoltarle con la mente staccata e le emozioni accese.