Charles Bradley era fatto di sudore, passione, lacrime e soprattutto urla, tante urla. Così tante da guadagnargli il soprannome di “Screaming Eagle of Soul”, l’aquila urlante del soul. Troppo nero per lo showbiz – Black Velvet era stato il suo primo nome d’arte – venne scoperto per caso nel 2011, nel mezzo della sua routine di imitatore di James Brown con cui, ormai da quasi vent’anni, arrotondava lo stipendio. In quel club scalcinato, Bradley incontrò Bosco Mann, il co-fondatore della Daptone Records, l’etichetta 100% analogica a cui si era rivolto Mark Ronson alla ricerca di una band che accompagnasse Amy Winehouse in Back to Black.
Non so quanto si rivedrà in questa definizione, ma Mann è il numero uno nel selezionare e nel far risorgere quelle carriere che sembrano destinate all’oblio, con un’attenzione particolare per le storie più sofferte e meravigliosamente anacronistiche. È stata la sua etichetta a ripescare Lee Fields, Naomi Shelton e Sharon Jones dai loro tour bus arrugginiti, dalle balere di provincia, dalla prigione del cliché, per fornirgli una band valida, un repertorio, uno stile ben definito ma, soprattutto, quella status di artista che non avrebbero mai pensato di raggiungere cantando nelle ballroom dell’America profonda.
La storia di Bradley e quella di Sharon Jones, raccontata nell’ottimo Miss. Sharon Jones! prodotto da Netflix, hanno molto in comune. Entrambi “too short, too fat, too black and too old” per sfondare, hanno dovuto aspettare fino alla soglia dei 60 anni per arrivare al grande pubblico, continuando nel frattempo ad arrangiarsi per sopravvivere e a suonare dovunque capitasse. Entrambi, arrivati al successo, si sono trovati a cantare per un pubblico profondamente diverso da quello a cui erano stati abituati fino a quel momento: per gli hipster di Pitchfork e gli agèe altoborghesi di Umbria Jazz, che li ha ospitati nel 2014 con la carovana super vintage della Daptone Super Soul Revue, un tour collettivo dell’etichetta ispirato da quello della Stax che, nel 1967, lanciò Otis Redding in Europa. Entrambi hanno raggiunto il successo con un mix di vecchio – l’analogico, la Stax – e nuovo – il passaparola online, la nostalgia imperante – senza passare per i canali tradizionali, senza nessuna hit di successo, ma al massimo con qualche strategica apparizione cinematografica: Charles Bradley in Luke Cage (sempre su Netflix), Sharon Jones cantando “Goldfinger” nientepopodimeno che in The Wolf of Wall Street. E a entrambi, ironia della sorte, è stato impedito di godere appieno dei frutti di anni di sacrifici e pura passione, colpiti da un tumore proprio negli anni della fama mondiale. Due vite parallele, insomma, nel bene e nel male.
Per conoscere meglio la storia tragica, americana fino al midollo, di Charles Bradley c’è il documentario Soul of America, presentato nel 2012 al SXSW e disponibile su Youtube. Qui vogliamo invece ricordarlo con cinque cover da lui incise nel corso degli anni e che raccontano da sé, senza bisogno di parole, la grandezza di questo interprete: da Neil Young ai Nirvana, passando per Rodriguez, un altro che di resurrezioni se ne intende, niente poteva sfuggire indenne al sudore, alla passione, alle lacrime, alle grida strazianti della Screaming Eagle of Soul.