21 Aprile 2019, Pasqua. Kanye West sta mandando in scena la sua personale interpretazione della resurrezione di Cristo. Nel parterre de roi di cui si è circondato sulla collinetta di Indio, California, alcuni suoi familiari, amici e colleghi ballano al suono di vecchi spiritual tirati a lucido per il momento. Tra di loro, con l’immancabile cappello col numero 3 (I made the three more famous than Steph. Trinità, i tre membri della sua famiglia), Chance the Rapper da Chicago. Verso la fine di quel film di Jodorowsky che è stato il Sunday Service, il fisheye si sofferma su uno Yandhi in totale collasso spirituale: ingolfato in un saio-felpa pauperista, piange a dirotto nel mezzo di un abbraccio collettivo: Kid Cudi, Ty Dolla Sign, ancora Chance fra gli altri.
Se del matrimonio di Chance the Rapper, avvenuto in primavera, non avevamo finora filmini o diapositive, il suo album di debutto chiamato appunto The Big Day sopperisce alla mancanza. Tutto il disco è infatti ispirato a quel giorno, ed è composto di musica che, dice lo stesso Chance, avrei voluto ballare al mio matrimonio.
Non stupisce che i temi più sviluppati siano quindi amore e famiglia. Il nostro è sempre stato un family man, e nella sua produzione abbondano canzoni sul tema: su tutte, la splendida Family da Acid Rap, che campionava You’re not Fooling me degli Angels, o il rifacimento di Family Business di Kanye chiamato Familiy Matters, prodotto con i Social Experiment. Chance non è quindi nuovo a inni di amore e gratitudine verso la FAMIGLIA, ma in questo disco i numerosi pezzi del genere non conservano quell’aura intima, spirituale, ultraterrena, zeppa di riferimenti biblici che gli aveva fatto riscrivere i canoni del gospel rap (i suoi versi su Ultralight Beam), trasformandosi in canzonette pop piene di sentimentalismo in stile Disney Channel. Prendiamo ad esempio I got you (Always and Forever) (sic), un pezzo in stile Destiny’s Child che mischia citazioni bibliche a frasi come I’m tryn go to heaven with ya / I would sit here in the waiting room together with ya. Sacralità e quotidiano, proclami aulici e culturapop sono stati sempre mischiati con successo da Chano (I’m pre-currency post-language anti-label / pro-famous, I’m Broadway Joe Namath), mai però insieme a un ritornello che consiste nel ripetere otto volte Always and forever, ever. Oppure Found a Good One (Sigle no More), dove il nostro si compiace nel ripetere I’m not single no more per una decina di volte su una base da Tomorrowland insieme ad altre amenità del tipo I done messing around and found a good one / more more more.
I pezzi sopra citati, insieme ad altre canzoni come l’opener All day Long (con un John Legend in grande spolvero nel cantare And if you with me I’m with you darling) o la festaiola Ballin’ Flossin’ (con Shawn Mendes) rappresentano la parte celebrativa, i brindisi, le danze della cerimonia. Nelle parti in cui si ballano i lenti invece la sensazione di twee, di sentimentalismo ostentato, viene meno, e troviamo canzoni più dimesse nella produzione, ma più sincere, dove ritorna quella riflessività straripante che ha reso grandi canzoni come Same Drugs o Lost. Do you Remember (con Ben Gibbard dei Death Cab for Cutie) è una canzone sull’estate e sul passaggio dall’infanzia all’età adulta. Qui Chano è nel suo elemento: il passare del tempo è scandito dal cambiamento dei protagonisti della cultura pop: cambiano le sneakers, di Aladin e Il Re Leone vengono fatti dei reboot con Will Smith e Donald Glover, Gwyneth Paltrow diventa vedova in Avengers: Endgame. Qui il mash-up alto-basso è vitale, stimolante, la riflessione e la citazione si rimbalzano in perfetto equilibrio, le metafore sono calzanti: su tutti, il verso Used to have obsession
with the 27 club / now I’m turning 27 wanna make it to the 2070 club. Sintetico, niente sbrodolamenti e benedizioni lanciate come il riso all’uscita dalla chiesa. Stesso discorso per Sun Comes Down, una sorta di testamento, un testo-fiume che incorpora le difficoltà del matrimonio, la morte e la falsità delle relazioni. Versi come Who to put in my will, who to put in my won’t / some people my blood, some people my flesh / that’s the difference ‘tween catch and fetch rivelano un approccio più privato, meditato. Certo, non siamo ai livelli amletici di PRIDE, ma questa canzone insinua un ragionevole dubbio, una piccola crepa all’interno di un disco altrimenti spavaldo e massimalista in tutto, dalle intenzioni alla lunghezza alla produzione.
The Big Day è, nelle aspirazioni di Chance, il disco della maturità, di un’identità e una stabilità finalmente trovate grazie al matrimonio e alla figlia. Nella realtà dei fatti, però, le 22 canzoni del disco manifestano una indecisione di fondo. Se la sua iperattitvità è sempre stata un valore, qui alla lunga annoia perché rivolta in direzioni troppo diverse. Come canta Randy Newman in 5 Year Plan: Time has come / to be who you are. Lui sembra sicuro che questo tempo sia arrivato, ma il disco sembra dire il contrario.