«Cantautorato elettrodomestico estremo», così definisce la sua arte, ma basta poco per capire che in quelle parole c’è un mondo. Quello di Ceroli, in cui le sette note non sono solo una passione. Sono una narrazione di sé, un lavoro per sé e una terapia per gli altri. Perché il cantautore abruzzese – o meglio di Lanciano, e in quelle zone ci tengono a specificarlo – è riuscito nell’obiettivo di dedicare parte della sua vita a quella che per tanti resta un’arte da ammirare. La musica. Da cantautore prima e da musicoterapeuta poi, a un passo dalla laurea. Già conosciuto come ex batterista del Management (del Dolore Post-Operatorio) – con cui ha realizzato la cover di Luigi Tenco, Un giorno dopo l’altro – ha capito col tempo che quel mondo là fuori avrebbe dovuto affrontarlo da solo. Perché raccontarsi era frutto di una necessità, non una scelta. E così il suo primo Ep Matilda.
Quattro canzoni, pubblicate per Biscottificio Records, capaci di esplorare l’intricato, e al quanto triste – «perché alla fine in fondo mi piace stare male» – universo dell’amore. Racchiuse in un ep nudo sul palco e nei testi, attraverso il quale sembra di sfogliare l’album della vita di tanti di noi. Ognuno nella sua vita avrà conosciuto ragazze simpatiche «come il gas» ma anche una Marica, che vive ai margini della città, tossicodipendente, che per quanto voglia metter fuoco a tutto è vera e «mi è davvero simpatica», o si è sentito una Matilda che «non hai ricordi e non hai eroi», poi c’è la relazione ai tempi di Instagram, spiarsi sui social, lottare per il numero dei followers e attendere di vedersi davvero per capire come sia evoluta. O la difficoltà di incontrarsi nel bar di sempre e sentirsi estranei.
C’è tutto questo nei testi che trovano la chiave nella quotidianità per raccontare sentimenti così intimi da chiedersi: e la paura di essere “sfogliati”? «Non c’è, preferisco John Lennon ai Beatles, una band deve camuffare la percezione collettiva, un cantautore deve raccontarsi, si espone intimamente. So di essere timido e riservato per questo ho sempre voluto mettere su un gruppo ma non ce l’ho fatta – ammette Ceroli – forse era difficile entrare nel mio mondo così ho deciso di lasciarlo mio e spero che possa piacere».
La timidezza dichiarata si perde già dagli appunti sui quadernini sparsi nel suo studio artigianale. È lì nel suo Abruzzo, e come nelle migliori sale prove fai-da-te, ci sono le confezioni di uova, i tappeti finti persiani ma, al posto dei classici poster rockeggianti, una tendina «fucsia con brillanti che era talmente messa male che il titolare del negozio cinese, dopo aver provato a sciogliere i fili, me l’ha regalata. Costava 2,50 euro. Ora è la porta del mio rifugio, o meglio della mia tomba», dice sorridendo. Per anni ha usato i guadagni dei tour per riempirlo con strumenti: chitarra, batteria, cornamuse, zampogne e tastiera. E senza che se ne accorgesse sono diventati l’estensione delle sue emozioni, scoprendo che in realtà, seppur da autodidatta, avrebbero potuto dargli voce.
La grande rivelazione, la ricorda bene, «è stata scoprire che la musica non si era fermata agli anni 70. Ascoltavo sono Beatles e Rolling Stones, Led Zeppelin o Modugno e Battisti – svela senza timori -. Ero molto giovane, frequentavo il primo anno di legge a Bologna quando il mio coinquilino ascoltò OK Computer dei Radiohead e capii che c’era ancora qualcosa di buono e che scrivere avrebbe potuto avere un senso». A quel punto, con l’università che gli stava stretta, iniziò ad annotare, a comporre e a registrare sulle musicassette. Gli amici di sempre, poi, sono a riusciti a convincerlo che poteva crederci davvero. Ora è al lavoro al suo primo album che uscirà in autunno sulla scia dei suoi compaesani Voina e Management da poco tornati alla ribalta con nuovi lavori discografici.
«Sarà bello e diverso, ci saranno temi e sonorità nuove. Ma non voglio dire di più». Anche questo sarà “elettrodomestico” per poi far ascoltare i brani alla stessa cerchia ristretta di amici. «Sono stati i primi a dirmi: “Ma quale band, guarda che puoi funzionare chitarra e voce”. Li stimo quindi ci ho creduto. Ci ritroviamo al tavolino del bar. C’è Domenico (Voina) che ha il Biscottificio, la mia ragazza Vicky e Tiziano Feola che curano i video e Luca e Marco del Management. Anche se sono sceso dal furgone, siamo grandi amici». Nessun saluto brusco, dopo anni trascorsi a fare anche 100 concerti per stagione, Ceroli ha capito che non voleva più coprire con i tamburi le sue emozioni. «Lo hanno capito. Siamo simili perché cresciuti nel nulla e nasce tutto da quello, ci sono solo due pub di amici nostri che abbiamo consumato negli anni sia come clienti che suonandoci».
E così, naturalmente, tutto è diventato realtà. Ceroli si è ritrovato a poter mostrare l’anima da cantautore indie (o it-pop, che dir si voglia) che si portava dietro già da dieci anni. Proprio nel momento giusto. Quell’attitudine vintage, però, ha cercato di barattarla con la voglia di parlare ai giovani, con un linguaggio social e moderno. «Anche in questo delicato momento chi oggi chiede sacrifici ai giovani, credo non abbia mai parlato davvero con loro. Credo che sia importante avere un canale diretto. Per me è naturale, ascolto chi mi sa parlare e parlo con chi mi sa ascoltare». E se non è sufficiente a dirimere i dubbi se sia indie o di nicchia «per me sono solo me stesso, come il mio cognome. Sono sincero, la musica è il mio lavoro e prima ancora la mia vita e se questo arriva, allora ha avuto un senso».