Dopo aver visto al cinema la versione restaurata di C’era Una Volta in America mi è parso di aver subito una sorta di iniziazione: il mio sguardo da spettatore appassionato della Settima Arte aveva riacquisito la verginità entrando in quella sala per vivere un’esperienza che pensava di aver vissuto già una trentina di volte magnificandosi di quella meraviglia tra videocassette, dvd e passaggi televisivi. E invece la moltitudine di emozioni che le oltre 4 ore di visione sul grande schermo mi ha dato non l’avevo mai provata prima: non mi vergogno ad ammettere di aver pianto, di essermi aggrappato al sediolino che mi stava davanti per farmi travolgere dalle immagini che via via scorrevano.
L’ultimo film girato da Sergio Leone non è un semplice capolavoro, ha l’odore di quell’essenza di cui sono fatti i sogni di celluloide, racconta una storia cruda e affascinante, romantica e triste, intrigante e misteriosa; dopo trent’anni ci si interroga ancora su alcuni tratti della trama, sul finale spiazzante e simbolico, sul perché della risata di Noodles che riempie piano piano lo schermo sui titoli di coda. Già Noodles, ovvero un magnifico Robert De Niro a livelli superlativi a capitanare un cast eccezionale con James Woods nella sua migliore interpretazione di sempre, con i ragazzini bravissimi della prima parte di film, con la giovanissima Jennifer Connelly nel ruolo della piccola Deborah che ha fatto innamorare ed arrabbiare almeno tre generazioni di amanti della pellicola; e crescendo Deborah assume le sembianze eteree di Elizabeth Mc Govern, ma vanno citati anche Treat Williams, Joe Pesci, Burt Young, Danny Aiello, James Russo, William Forsythe. Ma Sergio Leone volle tanta manovalanza italiana a cominciare da caratteristi e comparse che non possono che essere simbolicamente rappresentati da uno degli attori-feticcio del regista romano, il grande Mario Brega.
C’era una volta in America ha la forza dell’epica letteraria che si fa Cinema, sarebbe facile da riassumere indicandola come una storia che parla di amicizia, con i protagonisti Noodles e Max che circondati da Patsy, Cockeye e il piccolo Dominic vivono in simbiosi perfetta nell’America a cavallo tra le due guerre, nell’estrema povertà dei quartieri degli immigrati a New York in cui è fortissima la presenza malavitosa che prospera grazie al proibizionismo e i ragazzini diventano facili prede per i criminali che hanno bisogno di manodopera a buon mercato disposta a tutto. Ma non è semplificabile in due parole il significato della trama di questo film, anche perché diventa più facile stabilire quali argomenti non ci siano che quelli che vengono toccati: se il lato umano e sentimentale è rappresentato principalmente dall’amicizia al limite del morboso, tanto da sfociare nell’invidia dovuta alla gelosia, non può essere ignorato l’amore che trapela da molte delle scene, l’amore dichiarato e quello perduto, l’amore sacrificato e quello sognato. Il film parla di criminalità, di politica, di malaffare dovuta alla fusione tra chi governa e chi delinque, ha l’imponenza del romanzo di formazione, magari anche per fare i conti con quell’infanzia rubata che se non viene salvata ha il destino segnato.
L’opera di Leone percorre 50 anni di Storia senza soffermarsi sugli eventi che si succedono a livello mondiale, ciò che avviene intorno eventualmente si legge sui volti e le azioni dei personaggi principali narrati nella vicenda; anche il tempo che diviene fondamentale per i cambiamenti e le evoluzioni, e involuzioni, fisiche e morali dei protagonisti assume connotati emotivi grazie a un montaggio innovativo e coinvolgente: il tempo si dilata in ognuna delle epoche raccontate non dando mai l’impressione di aver lasciato qualcosa di insoluto nonostante capiti che la sceneggiatura dia più importanza a ciò che può immaginarsi lo spettatore che non ad imboccarlo su ciò che non si è visto, magari in quegli undici anni dal ’21 al ’32 o in quei 35 dal ’33 al ’68 che Leone pare voler simbolicamente annebbiare seguendo il percorso psicologico, introspettivo del suo protagonista, quel Noodles nel primo caso incarcerato dopo l’omicidio di Bugsy e nel secondo caso fuggito dopo la morte dei suoi amici. Tutto questo ovviamente non seguendo una linearità temporale ma passando dagli anni ’30 al ’68, poi agli anni ’20 e di nuovo ai ’30 per concludersi ancora al ’68 esplorando gli intrecci di una trama che non perde di mordente in tal modo, anzi dona un ritmo e una fluidità inaspettati per un lavoro così lungo.
Oltre alla fotografia del grandissimo Tonino Delli Colli e al montaggio già elogiato di Nino Baragli ciò che eleva C’Era Una Volta In America a pellicola monumentale è la colonna sonora del non plus ultra dei maestri di musica per il Cinema, Ennio Morricone: l’alchimia tra Sergio Leone e Morricone trova in questo film la perfezione assoluta avvolgendo di note sublimi qualsiasi scena descrivendo emotivamente tanto uno sguardo che una camminata, arrivando a fondere con eleganza e mai per caso il jazz alla musica classica e sinfonica. L’importanza della colonna sonora sta anche nella scelta di alcuni brani che dopo aver visto il film si associano automaticamente alle immagini collegate nonostante siano famosi e conosciutissimi: da Yesterday dei Beatles che segna il ritorno in scena dell’anziano Noodles nel 1968 a Summertime di George Gershwin e Night and Day di Cole Porter, ma soprattutto un brano della sinfonia La Gazza Ladra di Rossini nella spassosa scena dello scambio dei neonati nelle culle del reparto maternità della clinica in cui è nato il primo figlio maschio del capo della polizia Aiello (cognome che accomuna sia il personaggio del film che l’attore Danny che lo interpreta).
Quando il film uscì nel 1984 Leone dovette tagliare circa mezz’ora di pellicola perché il materiale girato era troppo e bisognò scendere a questo piccolo compromesso che gli parve comunque una violenza e gli fece piangere il cuore anche se non era nulla rispetto alla aberrazione che i produttori americani avevano fatto: per l’uscita nelle sale statunitensi avevano stravolto, eliminato il montaggio di Nino Baragli riallineando il filo temporale della trama ignorando non solo il lavoro magistrale del montatore ma la volontà di Leone che nella sceneggiatura scritta con Benvenuti, De Bernardi, Medioli, Arcalli e Ferrini aveva già immaginato e desiderato gli intrecci narrativi tra le varie epoche della storia. L’uscita statunitense fu un flop anche per un ulteriore taglio che portò sugli schermi una versione di 139 minuti; per fortuna nel resto del mondo tutti poterono vedere l’opera di 229 minuti così come l’aveva voluta e creata Sergio Leone, o quasi.
Infatti solo il 18 maggio del 2012, grazie al restauro della Cineteca di Bologna e del laboratorio L’Immagine Ritrovata in collaborazione con Andrea Leone Film e Regency Enterprises finanziati dalla Film Foundation di Martin Scorsese, è stata finalmente proiettata al Festival di Cannes la versione completa che il regista aveva girato con l’inserimento dei 26 minuti inediti che nell’84 erano stati tagliati. Regalo straordinario è stato fatto al pubblico con la distribuzione di questa versione, 256 minuti, per pochi giorni in alcuni cinema italiani, permettendo di vedere questo capolavoro finalmente sul grande schermo a chi, come il sottoscritto, non ne aveva mai avuto la possibilità.
C’era una volta in America sembra la chiusura di un cerchio nel Cinema di Sergio Leone, diventato grande con quelli che semplicisticamente venivano chiamati spaghetti western e che in realtà furono l’evoluzione pura di idee di regia come quelle di John Ford unite alla peculiarità narrativa di maestri come Kurosawa in un solco che non avrà passaggi simili tanto imponenti come quello di Leone: attraverso la sua sfrontatezza e il suo umorismo, lo sguardo denigratorio e la capacità evocativa delle immagini diventerà una pietra miliare della cinematografia non solo di genere. Il passaggio dalla Trilogia del dollaro (Per un pugno di dollari – Per qualche dollaro in più – Il buono il brutto e il cattivo) all’epopea di C’era una volta il west definisce una crescita non semplicemente narrativa ma tecnica, e l’esigenza di ampliare la visione di ciò che fino ad allora era definito semplicemente western evolve in un racconto al limite, Giù la testa, che, pur volendo distaccarsi da confronti tra cowboys e bounty killers toccando argomenti come rivoluzione e diseguaglianza sociale, ha comunque l’effetto di alzare di livello lo stile di quello che prima veniva definito western.
Tutti questi elementi sia stilistici che di sceneggiatura trovano la massima espressione in C’era una volta in America che trasferisce l’azione dall’ambientazione western a quella metropolitano-gangsteristica reinventando anche in questo caso il genere, e perfezionando lo sfruttamento dello spazio temporale delle scene la cui dilatazione era diventata già segno distintivo del Cinema di Leone, estremista del primo piano e dei particolari di collegamento (dall’orologio carillon di Per Qualche dollaro in più alla miccia di Giù la testa fino a giungere allo squillo del telefono di C’era una volta in America, per fare qualche esempio); il racconto che solitamente si basava su sviluppi ben congeniali e automatismi precisi del giusto e dello sbagliato, del buono e del cattivo, varia ad ogni film arrivando negli ultimi ad evitare giudizi di merito e a limitarsi alla narrazione di condizioni umane magari deprecabili moralmente ma che vanno seguite come vicende di personaggi di una storia e non come esempi da seguire, anzi elemento fondamentale per il coinvolgimento totale dello spettatore è nel moltiplicarsi delle domande che la trama spinge a farsi sfiorando o eludendo del tutto le risposte che ognuno può darsi o immaginarsi.
Da Noodles che fuma oppio steso nel teatro cinese con lo squillo del telefono che gli rimbomba nell’orecchio, a Deborah che dopo avergli fatto perdere i sensi danzando e spogliandosi tra la frutta e gli ortaggi gli ruba il cuore leggendogli Il Cantico dei Cantici, dalla morte del piccolo Dominic che esalando l’ultimo respiro sussurra “Noodles, sono scivolato” a Fat Moe che ritrovandoselo davanti dopo 35 anni gli chiede “Noodles, che cosa hai fatto in tutti questi anni?” e lui con la voce stanca senza neanche guardarlo risponde “sono andato a letto presto”…si potrebbe continuare all’infinito perché nessuna scena è inutile o banale in C’era una volta in America, ancor più nella versione ampliata con le immagini precedentemente tagliate che arricchiscono e definiscono l’opera girata da Sergio Leone. Dopo averlo visto sul grande schermo l’opinione che avevo in precedenza si è consolidata: è uno dei più grandi film della Storia del Cinema.