Siamo a fine marzo, da qualche giorno nell’emisfero boreale è arrivata la primavera, gli alberi si vestono del verde più brillante e dal silenzio delle strade arriva il cinguettio di una natura rinata. Per la prima volta probabilmente nella sua storia l’umanità tutta si ritrova nella stessa situazione. Al di là delle disuguaglianze economiche e sociali, da cui conseguono differenti modi di vivere e sopravvivere durante la quarantena, e differenti possibilità di affrontarne il post, e per cui sono state spese parole da voci più autorevoli della mia, l’emergenza sanitaria ci ha costretto tutti, o quasi, a una condizione che a pensarci pochi mesi fa sarebbe parsa assurda. La quarantena è arrivata come un siero velenoso a paralizzare la macchina isterico-inarrestabile che è il sistema in cui viviamo: siamo bloccati a casa, costretti in un isolamento volontario, abbiamo fermato ogni attività non essenziale, ma l’essenzialità è a dir poco soggettiva, e così ci siamo ritrovati, chi vive solo, chi con famigliari o coinquilini, a tu per tu con noi stessi, forse dopo parecchio tempo, forse per la prima volta. E non sempre è facile.
Proprio in questi giorni incredibili in cui il mondo esterno è arrivato ad esserci precluso, e per forza di cose ci stiamo rivolgendo verso l’interno, l’interiorità, ecco che esce l’ultimo disco di Nicolas Jaar. Sembra un segnale, questo disco che mentre da un lato ci canta quella che sarà probabilmente la colonna sonora dell’apocalisse, e dall’altro come una carezza sul viso bagnato dal pianto ci consola e ci purifica dal male, non può essere un caso. Cenizas è quello di cui avevamo bisogno, ma che non meritiamo: a pensarci bene il coronavirus è come se lo stessimo ormai aspettando, non con l’impazienza con cui si aspettano le cose belle, ovviamente, ma con quel senso di ineluttabilità del destino e quindi anche di rassegnazione. Ce lo aspettavamo, insomma. Troppe sono le ferite aperte e pulsanti del nostro tempo, troppo il dolore e il senso di impotenza di fronte allo strapotere dell’uomo e alla perdita di umanità. Per anni siamo stati ad attendere a vuoto quell’evento che facesse ripartire la Storia, ed ora che potrebbe essere arrivato? Siamo spauriti, ci siamo resi conto bruscamente delle nostre fragilità. Stiamo attraversando una profonda crisi, e la crisi per sua natura è ambigua. Il buio dell’abisso o la luce della risalita.
“We are living in a time of complete transformation, a metamorphosis— and the transformations are happening within as well. There is potential for great healing and great destruction.”
Sono le parole dello stesso Jaar nel comunicato che ha preceduto il rilascio dell’album. Avvolgendolo volutamente in un alone di magia e di trascendenza, possiamo dire che il produttore cileno-americano sia stato profeta non tanto del virus quanto della situazione esistenziale che ne sta scaturendo, o forse con la sensibilità degli artisti era riuscito a scorgerla prima degli altri mentre era nascosta sotto la cenere del nostro mondo. Voglio dire che la produzione del disco è avvenuta durante un prolungato periodo di isolamento (realmente) volontario in cui Jaar si è chiuso lontano da persone, alcool fumo e caffeina, riversato sul proprio lavoro, che immagino una gran parte consista con l’esplorare se stesso.
In particolare, dice che il lavoro è frutto dell’oscurità che si è trovato ad affrontare e con la quale tutti dobbiamo convivere, perché per quanto la si fugga quella rimarrà presente. Anzi è proprio attraverso l’accettazione della negatività che si può trovare l’uscita. In questo senso Cenizas è la stretta asse dell’arte sopra al burrone dell’oscurità. Infatti, i tredici brani dell’album suonano come un iper-moderna catabasi, un viaggio alle radici del dolore umano, tra la carne e il sangue, il lamento e il pianto, che ha come termine un ritorno alla vita: una morte rituale nel fuoco, per rinascere dalle ceneri. Una sintesi Jaar l’ottiene con un suono atonale e asimmetrico che crea una tensione disordinata, sciolta poi dalle impennate tragiche degli alti. L’atmosfera che trasmette è, appunto, mistica-rituale, scaturita da un sincretismo di suoni del passato del archivio di Jaar stesso e di sonorità avanguardistiche, da cui proviene però un’eco di un tempo andato, come dei suoni cibernetici mandati da un vecchio grammofono (Il futuro che viene dal passato).
Ma il sincretismo è allo stesso tempo culturale in quanto il lavoro del produttore ha sempre portato i segni dell’eredità latino-americana, ma anche popolare europea ed arabeggiante. Pur restando in metafora, si tratta di un ritorno letterale alle radice. La musica di Nicolas infatti appare come un fruttuoso luogo di incontro fra i sostrati culturali della storia personale della famiglia Jaar: l’effetto che ne deriva è di una fusione, a primo impatto stridente, di suoni lingue e tradizioni disparate, unite nel verso dell’armonia dal lavoro del produttore. Il felice risultato di un certo tipo di globalizzazione: il direttore capace è quello che riesce a far emergere a valorizzare ogni elemento dell’orchestra.
Da questa prospettiva l’opera di Nicolas Jaar, oltre al valore esistenziale, acquista anche un valore politico: non solo denuncia la presenza del male, ci esorta anche ad affrontarlo, e per quanto possibile contrastarlo. Da anni infatti il produttore è attento ai temi delle diseguaglianze sociali e dell’ambientalismo, fino ad essere diventato un artista di riferimento impegnato su più fronti.
Giusto per ricordare, la produzione del disco è precedente alla diffusione del covid, e per quanto sia suggestiva l’idea a posteriori di una profetica quarantena volontaria di Jaar, resta comunque una romantica fantasia. Al più possiamo dire che le condizioni in cui lo ascolteremo non possano essere più adatte, come a volere inverare il significato dell’opera. Ma questo discorso del senno di poi vale per qualsiasi opera d’arte capace di anticipare ciò che poi effettivamente sarà, sempre rimanendo sul nostro quotidiano, pensiamo all’Orwell di 1984. Quello che resta, nonostante queste speculazioni, è il messaggio allarmante e speranzoso del disco. Perché non scordiamoci la direzione in cui il mondo stava andando già da prima di questa piaga.
Cenizas, dicevamo, non è un caso, è un’opportunità: affonderemo nell’oscurità per uscirne nel segno della luce, o affonderemo solo? Lo svelerà il tempo. Quello che possiamo fare è ringraziare per questo disco e cercare di impararne qualcosa. Perché ce ne sarà bisogno.