Sabato 24 febbraio, 2024
Mancavo da Berlino da 13 anni. Se qualcuno, durante una notte alcolica, mi avesse detto che ci sarei ritornato a 41 anni per andare a un concerto dei CCCP, lo avrei preso per pazzo, o davvero troppo alticcio. Eppure, questo episodio surreale e insperato si è realizzato sabato sera, in una Friedrichshain pullulante di italiani: quelli della prima guardia, quelli dei novanta cresciuti con i C.S.I. e, sorprendentemente, i più giovani che riscoprono a loro volta il culto della band.
Tutti insieme: compagni, cittadini, fratelli, partigiani.
40 anni di CCCP e il primo, vero concerto dopo tre decadi per celebrare un’idea di mondo che non c’è più, in una città che cambia sempre e che forse resta sempre la stessa. Il punk filosovietico nell’era del crollo delle ideologie, dove la parola ‘sovietico’ è sempre più difficile da pronunciare, la musica popolare in un’epoca in cui ‘popolare’ è visto più o meno come una parolaccia.
Ma cosa si aspetterà chi ha attraversato mezza Europa per essere qui? Cosa ci si aspetta da una band che non suona insieme da cosi tanto tempo?
Tutti si aspettano qualcosa, ovvio: il ritorno di un’atmosfera, un’intenzione, un mito da celebrare, una scusa per riunirsi…troppa nostalgia? Può darsi.
L’atmosfera, innanzitutto, nell’avamposto ferroviario di Berlino Est, c’è eccome: l’Astra Kulturhaus è pienissimo (1500 persone a sera pare), il dj set nella hall celebra i fasti degli anni ’80 berlinesi e, davanti al palco, tutti si stipano, pronti a farsi coinvolgere e/o sconvolgere.
È pazzesco fare tutta questa strada ed incontrare per caso qualcuno che conosci e che non vedi da tanto tempo, eppure succede anche questo ai ritrovi nostalgici. Motivo in più per partecipare.
Alle 20:30 circa si spengono le luci e l’inno della DDR, accompagnato da un video, introduce la band. Tutti sul palco. Zamboni dà il benvenuto in tedesco e Ferretti legge il testo CCCP in DDDR, sembra di vederlo davvero da lontano il Reichstag: quel palazzotto vetusto in fondo al parco, con un branco di cervi che pascola al tramonto.
Annarella espone Un cartello con scritto “Tutti/o Esauriti/o”. Lo spettacolo può anche cominciare.
Depressione Caspica apre le danze. Nell’aria si sente palpabile la tensione delle aspettative (del pubblico e della band), che lentamente si rilascia. È come se ci si stesse studiando: loro suonano, il pubblico riceve e restituisce a sua volta, cantando, l’energia verso il palco.
Il suono delle chitarre è potente, avvolge: ogni riff è un pugno al cuore. Un’emozione che trasuda, continua, intensa: Morire, Oh battagliero, Stati d’agitazione, libera me domine: tutto come da tradizione.
Tu Menti e Curami sono tiratissime, parte un pogo insperato, accendendo gli animi e sciogliendo definitivamente la tensione.
È un gioco di seduzione continuo tra noi e loro, di complicità, dispetto ed amore. Mentre sfilano in rassegna pezzi mitici, bandiere del P.C.I., donne in burka, personaggi strambi, l’improbabile armamentario con cui Fatur cavalca a passi di danza il palco. Una danza decadente, grottesca che controbilancia da sempre gli interventi eleganti della bellissima ed algida Annarella Giudici. È ancora la band dei contrasti, quella del punk e delle balere, la chitarra grattugiata di Zamboni che fa da base per il salmodiare di Giovanni, i suoi slogan, le sue parole sempre ben scelte, sempre pesate, non più urlate.
Perché si amano i CCCP non serve certo qualcuno a spiegarcelo, lo sappiamo già da noi. Ognuno ha le proprie ragioni, che sono sempre diverse e restano, in qualche modo, una questione privata.
Emilia Paranoica è deflagrante, assoluta, un inno generazionale, che ad ascoltarlo oggi sembra davvero scritto ieri.
Punk Islam e Spara Jurij fanno il resto. C’è anche il tempo per raccoglierci attorno alla chitarra acustica a cantare Annarella o per una fantastica cover di Kebab Träume dei D.A.F.
Il finale vedrà il pubblico cantare Amandoti in un solo grande coro e una band emozionatissima che saluta il successo della prima serata, andato probabilmente al di là delle aspettative. “Si può scazzare e volersi bene comunque, non essere d’accordo e farlo diventare una risorsa, perché alla fine ci si vuole bene” dirà un Giovanni ancora adrenalinico prima di lasciare il palco, commosso.
Nella hall il dj set accompagna i reduci della sala verso l’ufficio. Ci si scambia sguardi di complicità, con la netta sensazione di aver condiviso insieme qualcosa di intimo ed epico.
Ci penserà l’aria fredda di Warschauer Straße a rinfrescare i pensieri e cristallizzare i ricordi.
Ne è valsa la pena arrivare fino a qui? Decisamente si. È stato bello vedere, per quasi due ore, quelle rughe abitare di nuovo un palco, i loro corpi trasformati dal tempo, riproporre uno spettacolo al confine tra il punk e il cabaret, tra l’austero e il posticcio.
Nella repubblica democratica smantellata di Germania, quelle rughe lì, che ripetono gli stessi gesti degli anni che furono, sembrano ancora dannatamente credibili.
L’ultima avanguardia del Novecento.
SCALETTA: