La prima volta che la sentii era durante una serata della primavera del 2019, l’ultima “vera” e normale, prima dello stravolgimento pandemico che ha drasticamente cambiato le vite di tutti. Era aprile, e la produttrice e compositrice Caterina Barbieri tornava a casa, ospite della partnership Robot Festival-Boiler Room. Nessuno all’epoca, ovviamente, poteva avere anche solo una pallida idea di quello che da lì a dieci mesi sarebbe successo. Tutti i fortunati presenti alla serata erano concentrati, assorti quasi, a seguire la scaletta dei live, trasmessi anche in diretta, come da format tradizionale, quando lo streaming era una freccia in più nella faretra e non solo l’unica modalità di accesso alla musica dal vivo.
Ricordo che quando arrivò il turno della Barbieri di salire in consolle, e lei si mise all’opera sui suoi synth modulari, calò un silenzio rispettoso e febbricitante. A quel punto i suoni elettronici iniziarono a serpeggiare, a volteggiare, riverberando fra i cristalli dei lampadari e gli affreschi di Palazzo Re Enzo, chi seduto per terra a gambe incrociate respirava profondamente, chi semplicemente, gli occhi chiusi, si lasciava guidare dalla musica: tra il pubblico si diffuse un’atmosfera che definire sacrale non è iperbolico. Chi c’era, o chi ha familiarità con la musica della bolognese, sa cosa intendo.
Mai come allora, o forse proprio allora per la prima volta, ebbi la sensazione che la musica avesse uno spessore fisico tangibile: una sensazione che solo in minima parte può essere associata ai bassi che “si sentono” nello stomaco. No, in quel momento era come se un fantasma stesse infestando la sala delle grandi occasioni, rimbalzando di qua e di là, dapprima trascinandosi al ritmo impostogli dalle manopole della compositrice, poi come per magia distaccandosene e muovendosi liberamente di propria volontà attraversava visceralmente i corpi spettatori dell’esibizione.
Conoscevo l’opera di Caterina Barbieri, ma all’epoca l’ultimo disco, Ecstatic Computation, era ancora inedito, sarebbe uscito ufficialmente solo il mese successivo. Motivo per cui ebbi la grande fortuna di ascoltare Fantas per la prima volta dal vivo, e di riconoscerla poi come incipit dell’album. A distanza di due anni molte cose sono cambiate, e sarebbe inutile e retorico ripercorrerle ora, ciò che invece è rimasta intatta è la grandezza di quel pezzo, e l’emozione, sempre al presente, nel riascoltarlo.
Probabilmente è per questo che pochi giorni fa (e forse non è un caso che si trattasse del periodo pasquale, famoso per le resurrezioni salvifiche) sia uscito per Editions Mego Fantas Variations, un disco che, per l’appunto, vede nove variazioni sul pezzo da cui prende il nome, che oscillano tra la finezza dei vocalismi e il suono grezzo dell’hardcore, tra lo stonamento del sax e la solennità degli organi.
L’opera di Caterina Barbieri brilla di una profondità non indifferente, e, come è capace ad ogni ascolto di far emergere qualcosa di nuovo e sconosciuto dall’inconscio dell’ascoltatore, così è capace di essere variata in modi sorprendenti e diversissimi tra loro che vanno ad aggiungere strati e strati di significati personali e sfumati a quelli già presenti, e densissimi, in partenza.
Insomma, se è la stessa Barbieri a spiegare che il nome deriva dalle parole “fantasia” e “fantasma”, Fantas Variations si configura come la bellissima accumulazione di ricerche possibili lungo la strada del proprio Io e dei propri desideri: mai veramente posseduta e possedibile, ma proprio per questo sempre aperta e affascinante.