Cate Le Bon – Reward

a cura di Fernando Giacinti

La storia della musica pop è piena di album concepiti, scritti o registrati in situazioni di isolamento volontario, dove la necessità di sottrarsi al frastuono del mondo è una condizione essenziale per l’espressione artistica. Dallo splendido esilio sulla strada principale dei Rolling Stones alla casetta nei boschi del Bon Iver di For Emma, Forever Ago, a volte il musicista sente il bisogno di staccare, di isolarsi e chiudersi per trovare le condizioni ideali per creare un disco. Spesso il risultato è impregnato di solitudine (il già citato Bon Iver), tristezza (pensiamo a Tonight’s the Night di Neil Young) o addirittura di un’aria eerie, fantasmatica (Nebraska di Springsteen).

La solitudine è fattore e tematica principale del nuovo lavoro di Cate Le Bon, Reward, uscito a tre anni dall’ottimo Crab Day.  Nel frattempo, un disco con Tim Presley a nome DRINKS e la produzione di Why Hasn’t Everything Already Disappeared? dei Deerhunter. Solitudine, dicevamo: il disco è stato concepito in un isolato cottage dell’Inghilterra settentrionale, su un vecchio pianoforte, in una condizione di “self-imposed isolation” che, a volte, ammette la stessa Le Bon, l’ha portata vicina alla pazzia. Il contesto di nascita del disco si riflette nelle sue tematiche: nel singolo Daylight Matters Le Bon canta “I love you but you’re not here, I love you but you’ve gone”, ma tutto l’album è pervaso di una malinconia gentile, autunnale, finanche sorniona. Non un grido disperato, dunque, ma un sussurro intermittente, una mezza parola con la voce rotta.

Non c’è gravità in Reward: il disco suona lieve, etereo. Le composizioni sono perlopiù ballate, come l’iniziali Miami, puntellata da sintetizzatori e sax, e connotate da atmosfere oniriche, come negli echi di Nico che troviamo in Here it Comes Again e Sad Nudes. Altri pezzi, come Daylight Matters e Home to You, sono più vicini a un chamber-pop raffinato che richiama i Destroyer o il Lou Reed di Coney Island Baby. La vena art-pop che caratterizzava maggiormente Crab Day la ritroviamo invece nei saliscendi di basso di Mother’s Mother’s Magazine e nelle sghembe frasi di chitarra quasi post-punk di Magnificent Gestures (con Kurt Vile alle backing vocals). Notevole, in tutti i pezzi, l’utilizzo dei fiati, che conferisce un’atmosfera quasi jazzata, da elegante night club, rinforzando l’aspetto notturno dell’album.

Non una notte di tregenda, comunque: non il tempo dell’angoscia e della paura, ma piuttosto uno spazio intimo, il silenzio rotto da qualche nota di pianoforte, una solitudine cercata ed esplorata in autonomia. La notte come tempo per riflettere sull’assenza, e cantarci su melodie agrodolci.

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