Nel 1977 Cat Stevens rischia di annegare mentre nuota al largo della costa a Malibù, allora si rivolge al cielo e chiede di essere salvato: Oh God, if you save me, I’ll work for you. Proprio in quel momento arriva un’onda che lo spinge con forza in avanti e gli dà tutta l’energia necessaria per tornare sulla spiaggia. Da allora il cantautore londinese si mette alla ricerca di Dio, finché non trova la risposta in una copia del Corano. Difficile per una mente sintonizzata sul ventunesimo secolo capire come possa accendersi un’improvvisa conversione religiosa, quali sono i meccanismi che si sono agitati nel cervello di Cat Stevens all’epoca – come sia stato possibile che abbia abbandonato la musica per la fede, e perché dopo aver flirtato a lungo con il misticismo orientale, lo zen e l’I Ching, alla fine abbia deciso di aderire all’Islam.
A proposito di quel periodo della sua vita Cat Stevens ha raccontato di avere interpretato da solo il Corano e scelto di abbandonare la musica perché la contraddizione religiosa fosse nella natura stessa del business musicale: “è difficile essere un buon musulmano quando vivi in quel tipo di mondo”. Cat Stevens decide di sparire: niente più concerti, niente più musica. Ma prima di ritirarsi da quel mondo che gli sembrava così incompatibile con la fede regala al pubblico un ultimo disco: Back To Earth. È il saluto di Cat Stevens ai fan prima di diventare Yusuf Islam. Back To Earth torna in stampa il prossimo venerdì 10 aprile in edizione deluxe per Cat-O-Log Records/BMG, in un box che non contiene solamente l’album originale, ma anche versioni live, demo rare, registrazioni inedite, e chicche del mondo di Cat Stevens. Sembra quasi di avvertire l’urto di quel passaggio, l’abbandono alla fede che si condensa nell’invocazione di un brano come Father – non più Father & Son, piccola parabola e classico evergreen – ma solo il Padre, spiriturale e disumanizzato.
In realtà l’elemento spirituale è presente anche nelle produzioni precedenti di Cat Stevens: anche se parliamo di un cantautore di stampo classico, dalla ricerca e vena melodica, abbastanza alla larga dalla vocazione spiritualistica del soul, una canzone come Morning Has Broken – che richiama un inno cristiano di Eleanor Farjeon – suona come un canto impregnato di misticismo e connessione spiriturale con il mondo, non solo per grazia delle parole (“praise for the singing, praise for the morning”) ma anche per le note soffici di un piano che a tratti pare arroventarsi su sé stesso, offrendo allo sguardo dell’ascoltatore una contemplazione del mattino che torna ogni giorno. Anche nella celebre Peace Train sembra cogliere un impulso morale di Stevens ancora prima che si manifestasse l’urgenza di una fede religiosa.
Probabilmente però quell’impulso di Cat Stevens è legato più a un immaginario ancora lennoniano che a una consapevolezza da proto-credente – siamo agli inizi dei Settanta e sono gli anni delle canzoni di protesta all’insegna del motto di pace e amore universale. Le stesse radici del folk dell’epoca non mancano di atmosfere spirituali, che Cat Stevens riesce bene a evocare persino in un canto d’amore ispirato come Lady D’Arbanville – canzone di una certa essenzialità, chitarra e voce, dedicata a Patti D’Arbanville. La stessa necessità la ritroviamo ispirare un disco come Tea for the Tillerman, uscito nel 1970 e uno dei più belli di tutta la carriera di Stevens, che raccoglie ballate delicate e sospese come Into White e Sad Lisa: come se Cat Stevens volesse cantarci l’essenziale della faccenda umana. La seduzione misteriosa della musica di Stevens è agitare meraviglia: per le piccole cose, per il volto di una ragazza, per il mattino, per una corda di chitarra.
In questo animato processo creativo a Cat Stevens riesce di trovare pure uno dei vertici melodici della storia della canzone folk britannica, Wild World – probabilmente pure una delle sue canzoni più sincere: se vuoi andare vai, ma stai attenta perché là fuori c’è un mondo selvaggio. Un po’ meno canzone-manifesto rispetto alla bella parabola di Father & Son, in Wild World sentiamo agitarsi la rabbia più umana di Cat Stevens, non solo verso l’adorata Lady D’arbanville ma anche nei confronti di un mondo duro, disgraziato e tormentato. Il tutto intonato attraverso il ritmo del bellissimo registro di voce di Stevens che batte il tempo sulla musica con il suo Oh baby baby it’s a wild world, creando il perfetto delitto di canzone che riesce ad attaccarsi alle pareti del cervello. Le canzoni di Cat Stevens sembrano in un certo senso consapevoli della bestialità del mondo, e tuttavia cercano ogni volta di scavare alla ricerca di spazi di meraviglia – come quel mattino che viene su ogni giorno. Cat Stevens sa che il mondo è pieno di amarezze e insidie, ma la musica è il rifugio dove trovare angoli di bellezza, e cantarli offre consolazione. Quando la musica non riesce più a salvarlo – tra le onde del mare – allora lui va altrove, alla ricerca di nuovi spazi.
Persino mentre suona a volte Stevens ha la faccia da illuminato che guarda verso il cielo, in cerca di una risposta ultima probabilmente – come se stesse pretendendo di saperne di più a proposito di questa odissea in cui siamo tutti compromessi. Anche una canzone d’amore come How Can I Tell You racconta un certo modo di assecondarsi all’impotenza per Stevens, che poi è la stessa impotenza di quando confessa di essere inseguito dall’ombra della luna nella ballata Moonshadow. E così il decennio dei Settanta va avanti, ispirando a Cat dischi sulla cultura zen, tra statuette del Buddha e libri sulla numerologia – ma senza mai arrivare alla piena certezza che troverà solo nella conversione all’Islam e quando deciderà di lasciare la musica. Le canzoni folk erano state una bellissima compagnia per il cantautore inglese, e del resto il folk si porta dietro la forza di una tradizione popolare e dei suoi canti – ma solo con l’abbandono alla fede Cat Stevens riesce in qualche modo a salvare il canto dalla mancanza di risposte e dal silenzio.
La storia di Cat Stevens nel cantautorato non è certo un’eccezione, anzi in alcuni casi pare quasi esistere un intreccio tra cantautorato e tensione divina: dalla conversione al cristianesimo di Bob Dylan, ai sussurrati Hallelujah di Leonard Cohen che saranno preludio al ritiro spiriturale buddhista, fino alle tracce sparigliato-mistiche che ancora oggi ritroviamo tra le invocazioni del cantautorato contemporaneo. L’eccezionalità di Cat Stevens è quella di essersi ritirato dalla musica per un periodo davvero lungo. E quando è tornato ha provato a mettere insieme quelle due personalità, Yusuf Islam e Cat Stevens, con qualche difficoltà a condensare quel nuovo mondo di canti di versetti islamici e la sua vecchia vita da cantante folk. Del resto Yufus aveva già avuto modo di tastare le difficoltà del wild world sul finire degli Ottanta, quando si era attirato critiche per essersi avventurato in opinioni sulla fatwa che chiedeva l’uccisione di Salman Rushdie per la pubblicazione dei Versetti Satanici; con l’11 Settembre le cose erano andate anche peggio, e Yusuf iniziava a scoprire che quella maschera religiosa che aveva indossato per trovare certezze sul mondo non fosse immune ai dubbi e alle ambiguità. Tanto valeva allora fare pace con Cat Stevens, e con Steven Demetre Georgiou – il vero nome di quando era solo un bambino che ascoltava i vicini suonare musica popolare greca alla finestra.
E così, a sentirlo suonare a distanza Back To Earth, sembra già di riconoscere la promessa di un ritorno alla musica. Just Another Night, la prima traccia, è la ballata e il sussurro di dolore per tutto il tempo di un ritiro alle scene auto-imposto e ricercato; e così l’organo di The Artist e quel canto di versi casuali danno un tono già nostalgico al commiato del cantautore; finché arriva quel titolo spettrale, Last Love Song – come se persino l’amore fosse una colpa da combattere. L’ultimo disco di Cat Stevens prima del lungo addio alla musica ha un suono impietoso, forse si tratta del disco meno misericordioso della sua discografia. Eppure in quegli angoli bui è come se potessimo riconoscere già gli indizi nascosti: Back To Earth non è un addio, ma un arrivederci. Vado a setacciare risposte per un po’, ma poi torno a cantare sul palco – perché il mondo resta una storia selvaggia e amara. E quando arriviamo all’ultima traccia, Never, è come se fossimo tutti un po’ salvi ad ascoltare la promessa della nuova primavera: “I know there’ll be another spring / and it won’t always be winter / and it’ll always be spring”. Come se fosse dentro il canto che si rigenera a ogni primavera la più bella delle risposte, come se il dubbio fosse più rassicurante di qualsiasi fede.