In “Quello che faccio tutto il giorno”, il primo racconto di “Casalinghe americane”, la raccolta di Helen Ellis pubblicata in Italia da La Tartaruga, una donna vive la sua vita di plastica con la dignità di chi si sente affondare nell’oblio, ma sa che per mantenere la sua immagine impeccabile deve appigliarsi a qualcosa, qualsiasi cosa, e andare avanti. Fra inquietudini che le rovinano l’umore e riti consolidati della sua quotidianità, si ritrova a commuoversi per i brillantini che custodisce in un cassetto, ma che sul finire del racconto vengono spazzati via dal marito con l’aspirapolvere. Sacro e profano, glitter e aspirapolvere, convivono negli undici racconti tradotti da Chiara Spaziani, che portano in Italia un’autrice e i suoi intenti: raccontare donne care a chi affonda le mani nella letteratura statunitense contemporanea, ma interessanti anche per chi delle scrittrici ha fatto la propria missione di lettura. E come la casalinga dell’ottima copertina dell’edizione italiana, che sciabatta con un asse da stiro e una cuffia da doccia verso le onde dell’oceano, così le casalinghe di Ellis corrono verso il disastro con gli strumenti e le convinzioni sbagliate, ma in fondo a chi importa? Quello che conta è salvare le apparenze.
Ellis sperimenta nei suoi racconti scritture variegate e sempre efficaci: dalla cronaca al tempo presente che man mano contrae le frasi fino a farle coincidere con le singole parole (“Quello che faccio tutto il giorno”), a una guerra spietata tra vicine tanto zelanti quanto sgradevoli che si consuma via mail fino all’epilogo cruento (“La guerra della boiserie”). Ma in “Casalinghe americane” ci sono anche monologhi perentori ed equilibri psicologici preoccupanti che sfociano nell’omicidio o, cosa ancora più inquietante, nell’imperativo comune del dolce “fare finta di nulla”, perché se si ignora il malessere magari va via per magia, mentre sono impegnate a gestire la casa o a guardare la tv.
Le protagoniste dei racconti sono donne in crisi di valori, consapevoli del degrado, ma impegnate a trattenersi: casalinghe spietate e giudicanti, inquietanti titolari di bookclub della borghesia statunitense, scrittrici fallite che vogliono recuperare il prestigio con bislacchi reality show (“Rovistando con le stelle”). Proprio in quest’ultimo racconto, la scrittura perfida ed efficace di Ellis si dilata e occupa tutta la narrazione in un trionfo di giudizi impietosi, donne noiose «come un ciambellone», scie di unghie finte e celebrity improbabili, di cui alcune realmente esistenti, che banchettano allegramente alla tavola della tv più degradante. In questo racconto, assieme a “Come diventare una mecenate” (di cui amo incondizionatamente il femminile nell’articolo indeterminativo), e in “Il mio romanzo vi è gentilmente offerto da Tampax”, fa capolino anche la satira feroce verso il mondo editoriale e le sue logiche sfrenate in bilico tra fallimento e successo sconosciute ai più, ma riconoscibili da chi in quel mondo ci lavora. In “Rovistando con le stelle”, in particolare, Ellis affronta il mestiere della scrittrice e lo desacralizza, mostrando il fallimento della protagonista come fosse il suo, anzi, forse è proprio il suo, scrittrice che ha esordito nel 2001 con un romanzo, “Eating the Cheshire Cat”, e che poi ritorna alle stampe solo quindici anni dopo con “Casalinghe americane”.
«Se scrivessi di quello che conosco, chi vorrebbe leggerlo?» si chiede la protagonista, la stessa che quando Mario Batali (sì, lo chef americano, presente anche lui nel racconto) le chiede come mai non ha pubblicato un secondo romanzo, «amputa la testa di un cigno di burro» dal tavolo del buffet e se la ficca in bocca in preda al nervosismo.
Dico, “ho scritto, solo che non ho pubblicato.”
“Qual è la differenza?” chiede la tennista.
Dico, “è come quella che passa tra il palleggiare contro la porta del tuo garage e giocare a Wimbledon.”
“Ecco!” esclama Lithgow. “Questo è scrivere!”
Voglio strisciare lungo tutto il tavolo e baciarlo sulla bocca.
Ma ancora più significativo è l’intervento della sua agente letteraria settantenne:
Dice, “bambola hai scritto un libro sulle colonie quando in classifica ce n’erano altri due. Hai scritto un libro su dei bambini che diventano gatti, quando i vampiri sono ancora – Dio ci aiuti – l’unica cosa di cui tutti vogliono leggere. Hai scritto un libro su una strega che infetta il suo quartiere con l’herpes. Herpes, bambola! Fidati di me, nessuno vuole leggere di herpes. Ascoltami: tre generazioni di donne, ecco ciò che vende. E le tre A: adulterio, aborto, anoressia. Ti fidi di me bambola? Ti prego.”
Nell’agente, ma in ogni protagonista di Ellis, c’è lo stesso cinismo misto a consapevolezza che tutto non andrà bene e che la cattiveria glorifica se sei una casalinga americana e ciò che ti interessa è la gabbia in cui sei prigioniera, costruita con l’insoddisfazione che ti rosicchia le viscere. Ma se hai i brillantini, i reality show e un marito da accudire puoi stare tranquilla: le apparenze e i privilegi conquistati con tanto sacrificio e dedizione sono salvi, e questo è tutto quello che conta.