CapoVersi | Tre poeti per l’autunno

Da qualche settimana in libreria trovate una nuova collana di poesia, CapoVersi. Forse avrete già notato l’eleganza bianca con cui si fa largo negli scaffali riservati ai poeti, tra i grandi classici della poesia e le raccolte che conosciamo già – tra i fiori del male di Baudelaire, le illuminazioni di Rimbaud, i versi della beat generation, i bobolink di Emily Dickinson, la ruggine di Carver e i canti di Cohen, da qualche tempo a questa parte ci sono tre libri di poesia editi da Bompiani che vi invitano e richiamano con forza alla lettura. I tre autori che inaugurano l’uscita della collana non sono proprio tra quelli che si trovano con grande facilità in traduzione italiana: il cileno Nicanor Parra, l’americano John Ashbery e il russo Vladislav Chodasevič. Scelta che ci dà l’occasione di conoscere meglio i tre poeti e i loro versi.

Nicanor Parra, L’ultimo spegne la luce

Nicanor Parra ci ha lasciato da poco, nel gennaio del 2018, a più di cento anni − la sua vita è praticamente un’odissea sudamericana che si è incrociata con la storia del suo paese, il Cile. Per entrare a fondo nel suo mondo potremmo collezionare ogni più ignota definizione di cosa sia l’antipoesia – lui stesso si definiva un antipoeta. Cileno come il premio Nobel Pablo Neruda e il poeta da trono nazionale Vicente Huidobro, Parra si scosta progressivamente da quel modo di cantare o intendere la poesia: vuole accelerare verso l’essenziale, penetrare il latrato che si fa canto – ed è così che nasce l’antipoesia, mentre ci si interroga sulla morte della poesia (“ormai non mi rimane altro da dire / tutto quello che dovevo dire / è stato detto non so quante volte”), per arrivare infine a urlare la verità: “solo una cosa è chiara: che la carne si riempie di vermi”. Non è un caso che Parra sia uno dei poeti preferiti di Roberto Bolaño, che ne apprezzò il manifesto viscerale e antipoetico con cui dichiarava lotta alla poesia come bene di lusso: “per noi invece / è un articolo di prima necessità: / noi non possiamo vivere senza poesia”. Il Manifesto di Parra è il grido del poeta illuminato e autentico che non può fare a meno di scrivere, che si scaglia con durezza contro i poeti tascabili, che invita i poeti a scendere dall’Olimpo per andare nelle strade a cercare la poesia della terraferma. Bisogna ammazzarsi dentro le parole e tra i versi — fino a lasciarsene infettare. Non si può vivere senza poesia.

E allora questa edizione diventerà un vero e proprio viaggio dentro la furia poetica di questo cileno di ferro, che lancia bordate e grandinate solo con la forza delle parole – che ci avverte, a leggerlo potremmo ritrovarci a sputare “sangue da bocca e narici”, che ci trascina dentro un notiziario del 1957 dove “gli studenti protestano giù in strada / ma sono massacrati come cani”, cani che tornano in Vida De Perros, cani romantici come nelle poesie di Bolaño. E poi improvvisamente il gioco dei 4 sonetti dell’Apocalisse, meravigliosa opera di visual poetry in rima che recita: †††† ††† ††††† †† †† †††††† ††† – in una neolingua immaginaria dall’estrema libertà e persuasione poetica. Già, non era mica poi così vero che tutto fosse stato detto e scritto, c’era ancora da scavare, da liberare, c’erano ancora mille combinazioni possibili di parole e segni, cumuli di libertà future da tracciare, c’era ancora da giocare. Questo – anche questo – è l’antipoeta Nicanor Parra.

Crediamo di essere paese
ma la verità è che siamo appena paesaggio.
(Cile)

John Ashbery, Autoritratto entro uno specchio convesso

Anche il poeta statunitense John Ashbery ci ha lasciato di recente, appena due anni fa. Gli resterà appiccicata addosso la stima di Harold Bloom che lo aveva paragonato a immortali cantori di versi in lingua inglese come Walt Whitman, Emily Dickinson e Hart Crane. L’Autoritratto, che uscì nel 1975 e si aggiudicò i tre maggiori premi di poesia negli Stati Uniti, è un omaggio a un dipinto del Parmigianino che porta lo stesso nome della raccolta di versi dedicata al compagno di Ashbery, David Kermani. Prima dell’uscita dell’Autoritratto Ashbery aveva già pubblicato poesie, conosciuto poeti come Frank O’Hara e Gerard Malanga, ma è con questa collezione di versi che si afferma: c’è un’eleganza nelle parole di Ahsbery che riesce a infiltrarsi direttamente sottopelle, a illuminare gli anfratti più oscuri delle nostre esistenze come raggi della postmodernità: “Solo l’attesa, l’attendere: cosa riempie il frattempo? / È un altro tipo di attesa, attendere che l’attesa termini”. E così vediamo aprile che avanza con le sue proposte, i diari che si assomigliano tutti “limpidi e gelidi”, ascoltiamo il racconto di una voce indistinta che nella Poesia Tripartita ricorda un pompino, e “chi va a letto con cosa non è importante”.

John Ashbery è un limatore secco e generoso di parole, coi suoi versi ostili e ricercati scava a fondo nella circostanza dell’essere umano, si muove tra agitazioni e immagini che prendono a turno le forme di fattorie e fotografie di ragazze d’America, “foreste urbane, piantagioni resistenti al freddo”, inquieti dubbi esistenziali e linguistici, una voracità di occasioni sparse da una parte all’altra d’America. Ed è bello in questo naufragio tra versi ashberiani trovare il messaggio che “i canti ci proteggono” – almeno stanotte, almeno finché siamo liberi. Almeno finché non consumiamo tutti i sensi nella lettura di versi. La poesia di John Ashbery va decantata, come il vino.

Eppure siamo soli anche noi ed è triste, no?
eppure sei fatto per stare solo almeno per parte del tempo
devi esserlo per poterti mettere all’opera eppure pare sempre così artificioso
come se incontrare persone fosse parte integrante della vita il che potrebbe anche essere
e poi non si sa come la solitudine si fa più reale e più umana
sai, non solo lo spaventapasseri ma il paesaggio tutto
come anche i corvi che beccano pacifici appena l’erpice è passato
(Orchestra di liscio lituana)

 

Vladislav Chodasevič – Non è tempo di essere

Non conoscevo Vladislav Chodasevič, eppure la sua compagna Nina Berberova (anche lei poetessa) lo ha definito l’undicesimo poeta russo tra “i dieci poeti senza i quali la poesia russa non esisterebbe”. Non so quanto possa trattarsi di una definizione generosa – però se così fosse finire subito dietro nomi come quelli di Puškin e Mandel’štam non dovrebbe essere certo la peggiore delle condizioni possibili. Del resto Chodasevič avrebbe desiderato essere il Puškin del proprio tempo, amante com’era di una poesia russa alta e fondativa – il suo universo sembra però più cupo, disperato fino allo sprezzo, monco di quella malinconia puskiniana che è carica di passione. Con Mandel’štam condivideva invece le inquietudini con il proprio tempo, lo sconquasso di un Unione Sovietica che metteva al bando quei poeti che cantavano contro, in qualche caso ammazzandoli — come accadde allo stesso Mandel’štam e al suo amico Gumilëv, marito di Anna Achmatova.

Chodasevič prese i bagagli ed emigrò tra Berlino e Parigi, e questa frattura disordinata che significava trovarsi lontano dalla propria terra è viva e aspra dentro i suoi versi. Accade per esempio di trovarla ne La notte europea: è nella lacerazione della distanza che nasce la sua estrema cupezza, la sua notte, la sua tortura, quell’astio grigio e meschino che canta come disumano e arreso (“eppure a tratti c’è angoscia, / a tratti pena”), tutta l’agitazione per la separazione dalla terra che ama e maledice allo stesso momento. La notte europea è nera, senza quiete, invasa di caffè: alle belle sconosciute che incontra al bar Chodasevič non dedica canti appassionati come Baudelaire o Brassens, ma augura il peggio che possa capitare. A tratti Chodasevič è così infuriato che bisogna prendersi una pausa dal suo notturno agitato dentro l’inizio del secolo scorso, mettere a una certa distanza di sicurezza il cuore dalla penna del dandy implacabile – eppure bisogna pure offrirgli una salvezza, leggendolo.

Anche in sonno l’anima non ha riposo:
sogna la veglia, l’inquietante, terrena,
e attraverso il sonno odo un delirio,
che a stento la vita del giorno mi ricorda.

Exit mobile version