Di folkloristico ci resta solo il dress code scelto da alcuni, perché quanto accaduto a Capitol Hill è un’autopsia feroce sullo stato di salute della democrazia americana. Molto di quanto visto non è più un fatto simbolico, né tanto meno solo virtuale, sebbene dal virtuale abbia in parte preso le mosse. Per smascherare il virtuale bisogna partire dai fatti, altrimenti tutto sembra opinabile, incerto e infondato. E solo i fatti potrebbero chiarirci meglio perché scapigliati musicisti indie-pop vengono messi alla porta dalle loro etichette, presidenti a stelle e strisce scaricati nelle urne dagli elettori, e in seguito da gran parte del proprio partito a pochi giorni dalla fine del mandato.
I fatti dicono che un miliardario democraticamente eletto qualche anno fa, ha perso la sua seconda corsa alla Casa Bianca e deve lasciare il passo al suo avversario Biden. Lo sconfitto non ci sta a perdere e tramite un uso sistematico dei social e dei suoi canali politici e mediatici, chiama a raccolta i suoi sostenitori, ottenendo la pronta risposta della frangia peggiore dei suoi accoliti.
Nel sistema politico americano c’è una falla legislativa e/o costituzionale che, di fatto, da sempre, è stata coperta da quella che è una consuetudine, mai messa in discussione e radicata nella tradizione a stelle e strisce, vale a dire il riconoscimento della sconfitta, e il legittimo via libera di chi perde a chi vince. Il pericoloso e capriccioso miliardario, sin dalla notte della sua democratica disfatta, di riconoscere la sconfitta, proprio non ne ha voglia, tant’è che si proclama vittima di presunti brogli elettorali, pur avendo preso sette milioni di voti in meno, e chiede una riconta delle schede, che, dove è stata fatta, lo ha visto perdere ulteriormente. È a questo punto che sbraita dal web una chiamata, è proprio il caso di dire “alle armi” dei suoi seguaci (“patrioti”), prevedendo già la reazione immediata dei più ferventi tra loro, proprio nel giorno e nel luogo della seduta che certifica la vittoria di Biden a nuovo presidente.
Sempre i fatti ci dicono che alcune migliaia di persone, provenienti da una manifestazione pro Trump, raggiungono Capitol Hill, facendo irruzione nel palazzo del potere, e lo fanno in modo così violento da lasciare a terra alcuni morti e decine di feriti. Quella che dalle foto, tanto virali per quanto scenograficamente bizzarre, può sembrare una bravata paragonabile all’occupazione di un liceo con relative foto con i piedi sulla scrivania del preside, in realtà è una vicenda che scopre tutta la fragilità di quella che viene fatta passare da decenni come «la più solida democrazia al mondo»: tanto solida da arrogarsi, finanche, il diritto di essere esportata. Sì perché questi accoliti di Trump non sono sprovveduti partecipanti a un’estemporanea gita fuori porta, ma orgogliosi suprematisti bianchi e complottisti, esponenti di svariati gruppi razzisti e nazifascisti di ogni estrazione, come documentano le bandiere e i cartelli della “confederazione schiavista” o di QAnon (la delirante teoria complottista cresciuta sul web a cui strizzano l’occhio le destre estreme, e ormai non più solo in USA).
Sempre per restare sui fatti, qualche domanda sul come e perché questi personaggi, alcuni dei quali anche armati, siano potuti entrare quasi impunemente nel cuore del potere americano, sbeffeggiandolo, dovremmo farcela; a maggior ragione se il tutto viene messo in relazione ai metodi usati nei confronti delle proteste e delle ragioni del movimento Black Lives Matter, nato dalle continue e immotivate uccisioni di neri da parte della Polizia. Diventa davvero difficile comprendere la poca reattività delle forze dell’ordine verso questi estremisti di destra: pur restando in un’ottica completamente democratica, l’azione e l’irruzione lede un principio cardine della democrazia – quello elettorale – che loro per primi sarebbero chiamati a difendere da un tentativo di rovesciamento; quello che a tutti gli effetti risulta un tentativo di golpe, sebbene velleitario e caricaturale, che per altro non ha precedenti nella storia americana. Sebbene a giorni questa vicenda tenderà a spegnersi con l’insediamento definitivo di Biden, (che pure non ha brillato per reattività nell’immediato) e la certificazione che i Repubblicani prenderanno le distanze da Trump, tuttavia la “presa del Campidoglio” lascerà aperte ferite profonde, nella società più che nella politica americana.
E proprio guardando oltre la politica si intuiscono meglio i termini di alcune questioni che un paio di esempi possono aiutarci a capire: prendiamo il caso di Steve Kerr, giocatore di basket (bianco), uno dei compagni più fidati del leggendario Michael Jordan ai gloriosi tempi dei Chicago Bulls. Steve Kerr successivamente è diventato anche un allenatore vincente conquistando altri titoli con i suoi Golden State, rimanendo in questa veste nell’ambiente della palla a spicchi. L’NBA, la miliardaria lega di basket professionistico, da sempre all’avanguardia nella lotta al razzismo, anche in occasione del movimento Black Lives Matter ha fatto la sua parte con innumerevoli iniziative; e lo ha fatto non per una mera questione filantropica, ma perché il settantacinque per cento dei suoi cestisti non solo è di origine afroamericana, ma perché composta da atleti provenienti dai quartieri e ghetti più poveri e malfamati, dove spesso, già da ragazzini, quegli stessi soprusi da parte della polizia si scontano sulla propria pelle. I cestisti hanno minacciato di fermare il torneo ben oltre il rischio covid se non fossero state accettate alcune richieste precise, come donazioni da centinaia di milioni di dollari a vantaggio della rinascita sociale e culturale di molti quartieri ghetto e la possibilità di sostituire ai propri nomi sulle divise ufficiali, (che vanno sulle tv di centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta) le parole d’ordine della lotta e del movimento BLM.
Dicevamo di Steve Kerr, che tra un allenamento e l’altro, trova il modo di esprimere chiaramente il proprio pensiero sui fatti di Capitol Hill, forse più chiaramente di tanti politici americani, Democratici inclusi:
“Migliaia di persone di pelle bianca possono fare irruzione in Campidoglio, senza incontrare alcuna resistenza da parte della polizia. Ma non sia mai che un dodicenne nero porti con sé una pistola giocattolo, o un quindicenne sempre nero torni a casa dal negozio con una scatola di Skittles, o ancora che un giovane uomo si trovi a correre per lavoro in un quartiere, non sia mai che una di queste cose accada. […] poiché la stragrande maggioranza degli atleti della nostra lega è afroamericana, credo che ciascuno di loro sia particolarmente colpito da tutto ciò. In realtà ne siamo tutti colpiti, ma questo vale di più per gli afroamericani che hanno dovuto confrontarsi con questo tipo di ingiustizia per tutta la loro vita e nella vita delle loro famiglie.
Le cose non cambieranno mai finché non riconosceremo che una differenza esiste. Le cose non cambieranno mai finché non prenderemo consapevolezza di ciò che è stata la storia dei neri d’America e del modo in cui sono stati trattati, tornando indietro ai tempi della schiavitù, a quelli della ricostruzione, a quelli dei diritti civili. Non potremo dire che è in corso un cambiamento se prima non riconosceremo l’esistenza di un problema. Ciò che si è visto oggi ci ha ricordato le enormi differenze che esistono ancora. C’è un motivo per cui non stiamo assistendo a sparatorie, atti di brutalità, razzie o altri comportamenti di questo tipo, e certa gente può camminare in Campidoglio come se niente fosse. C’è gente che ha occupato l’ufficio di Nancy Pelosi come se nulla fosse. Tutti sappiamo che ci sarebbero state pistole fumanti e fuochi ardenti se ci fossero stati dei neri a protestare fuori dal Campidoglio. Per non parlare di ciò che sarebbe successo se la protesta fosse avvenuta all’interno, distruggendo l’edificio.”
Ecco perché possiamo rispondere ad Ariel Pink che sfilare di fianco a una bandiera che inneggia alla schiavitù, a simboli nazisti e a organizzazioni razziste, non è mai una fatto pacifico. Non lo è né in teoria né nella pratica. E no, il caso non è chiuso affatto, come egli stesso sostiene alla fine del suo tweet in cui rivendica di essere stato tra i manifestanti “pacificamente”. Evidentemente non lo è stato nemmeno per la sua etichetta musicale, la Mexican Summer, che ha ritenuto questi motivi eticamente sufficienti per scaricarlo. Si può criticare o no una scelta, a seconda di come uno la pensi, ma non si può rifuggire dalle conseguenze: è questo che forse non è del tutto chiaro prima di oggi (o Before Today come titola un suo bel disco), al musicista indie-pop americano.