Per questo imparo ad aspettare / sulla riva del fiume da cui passa / ogni altra arte, in parte / perché neppure dal fiume / passa tutto, una corrente sceglie / cosa far emergere e cosa affondare. / Sono in quel fondale le canzoni / che mi hanno salvato la vita.
Nonostante i cambiamenti climatici esiste un appuntamento quasi fisso a cavallo tra la fine di agosto e gli inizi di settembre quando improvvisi temporali estivi e bruschi cali di temperatura concedono un anticipo di fine estate e segnalano con elegiaca malinconia l’approssimarsi dell’autunno.
Chiunque si sia trovato – ancora poche ore orsono – su una spiaggia, in uno di quei giorni, conosce benissimo quel sipario di nuvole basse e grigie che scende a coprire l’orizzonte, lo specchio d’argento cinereo in cui il cielo trasforma il mare, il vento che si alza, improvviso, a scuotere ombrelloni e pensieri, sollevando sabbia e spruzzi d’acqua. Con i più coraggiosi a restare in mare ad aspettare le prime gocce di pioggia mentre i pavidi salgono di corsa con, addosso, un telo da mare prima di asciugarsi e risalire nelle case di villeggiatura.
Se esiste un disco che – prima ancora che nella triste bellezza delle sue canzoni – è riuscito fin dalla copertina a raccontare la delicata malinconia di quei momenti, quel finis terrae dell’anima sul limitare del vero e solo inizio d’anno, quel disco è l’epocale On the beach di Neil Young. In molti ricorderanno, di certo, quella cover con il rocker canadese immortalato a guardare il mare, di spalle e a piedi scalzi, sulla spiaggia di Santa Monica, mentre a un normalissimo ombrellone in primo piano fa da contraltare l’immagine surreale del retro di una Cadillac sepolta nella sabbia.
Quell’immagine così iconica è – rimaneggiata – proprio la copertina di Ambulance Songs – Non dimenticare le canzoni che ti hanno salvato la vita, edito da Arcana e scritto a quattro mani da Salvatore Setola e Luca Buonaguidi. Ambulance Songs – che prende il nome proprio da uno dei brani più belli di quel disco, Ambulance Blues – è un’opera di resistenza che, fin dall’introduzione/manifesto, prova a recuperare un rapporto diverso con la forma recensione – ormai, troppo spesso, sospesa tra estremi che mostrano il fianco a una sempre più frequente stanchezza, tra tentativi ripetitivi e didascalici come anche inutili e impudiche esibizioni di stile, barocchi formati celebrativi del nulla o poche righe ridotte all’osso, piccole marchette funzionali a circoli sempre più ristretti – per restituirla a un’epoca diversa, a un’epica musicale non così, in fondo, lontana nel tempo.
L’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte. Anziché di un’ermeneutica abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte.
Susan Sontag, Contro l’interpretazione
Fin dalla citazione in esergo di Susan Sontag, è chiaro che questo libro vuole andare in una direzione diversa dalle formule più comuni e consuete, lasciando da parte l’aspetto più strettamente tecnico e stereotipato della forma per proporre, invece, “una commozione diffusa, un’erotica della musica che deponga le ostilità dell’interpretazione in favore del sentimento poetico verso le canzoni”.
L’operazione risulta originale, convincente e soprattutto solida, grazie alle quattro mani che, come anticipato, (con)dividono il viaggio. Quelle di Luca Buonaguidi – di Pistoia, classe 1987, psicologo, poeta e scrittore – affondano nella parte più propriamente lirica attraverso brevi componimenti che introducono ogni canzone (e che trovano straordinario compimento nella bellissima suite Ambulance Piano Weeks che tiene insieme un mondo poetico ispirato dalla title track, da Astral Weeks di Van Morrison e dal Köln Concert di Keith Jarrett). Quelle di Salvatore Setola (Caserta, classe 1986), di formazione storico dell’arte, invece, a questo mondo poetico che racconta più che una provincia in sé, una provincia dell’anima fatta di suggestioni e confessioni, di momenti ora descrittivi ora più ermetici e minimali, rispondono – ancora con un racconto tanto di una provincia diversa e feroce quanto di un’anima affine e contigua – attraverso la prosa strabordante ed entusiasta che lo contraddistingue.
Salvatore l’ho conosciuto sotto un palco. Non ricordo quando, non ricordo nemmeno chi suonasse ma non importa perché fin da allora a restare impresso era altro: la sua capacità affabulatoria, il senso del ritmo mentre racconta, l’incredibile florilegio di citazioni, il suo raccogliere dentro lo stesso discorso e in una visione mai ortodossa e banale i suoi innumerevoli riferimenti culturali. Quello spirito – che colpisce chiunque lo abbia conosciuto – si ritrova intatto nelle pagine che raccontano le canzoni che gli hanno salvato la vita.
Così, se nascosto dietro il filtro poetico, Buonaguidi ci accoglie in un mondo per sua natura meno accessibile dove, però resta forte il senso di una voce personale e, attraverso un racconto che, pur meno intellegibile, accompagna con pochi versi l’ingresso in punta di piedi in ogni canzone, Setola ci regala quasi un romanzo di formazione tanto intenso quanto scanzonato e malinconico che rappresenta la nervatura su cui emerge – come una filigrana – una sorta di weltanschauung, di un’idea di arte e, tramite questa, dello specchio riflesso che è il mondo reale.
Ma non c’è solo questo: oltre all’ampio ventaglio dei musicisti e dei generi coinvolti – dai Nirvana di Serve the servants a Holocaust dei Big Star, dai Dirty Three di I offered it up to the stars and the night sky ai Butthole Surfer di Negro Observer, dal Battisti del periodo Panella al sabba kraut dell’Halleluwah dei Can o, ancora, Nick Drake, Bowie, gli Smiths, la parabola unica e tragica del napoletano Luciano Cilio – colpisce la ricchezza dei differenti registri cui si fa ricorso. Si passa, così, dall’autobiografia divertita di una vacanza in Sicilia con tanto di maglietta nera anarchica e Memorie del sottosuolo di Dostoevskij sotto braccio che accompagna Dreams burn down dei Ride – al calembour su cui è costruito il racconto di Decline and fall dei Virgin Prunes, da una elaborazione de Il Primo Dio di Emanuel Carnevali (naturalmente legato ai Massimo Volume) fino al racconto vero e proprio – ed è un racconto splendido – che sta dietro Indian Summer dei Doors e che, partendo da una maglietta degli Yo La Tengo, attraversa le strade di Napoli, Londra, New York e del Pakistan per farci immergere nelle pieghe di un sogno d’amore rimandato e sospeso.
Coi suoi tempi dilatati e rilassati, con il suo essere fuori da una stressante ossessione alla contemporaneità ad ogni costo, all’inseguimento e alla troppo spesso smisurata sopravvalutazione della next big thing, Ambulance Songs ci riporta al cuore della musica, a un suo nocciolo sacro, soprattutto al dialogo incessante che ci lega alle nostre passioni. E non a caso quella di Ambulance Songs non è un’esperienza che si conclude all’ultima pagina di questo libro ma è diventata un blog (https://ambulancesongs.com/) dov’è possibile inviare il proprio contributo per costruire un archivio di passioni condivise e di canzoni salvifiche, le mappe, le memorie, l’aiuto degli altri come un poeta caduto ebbe una volta a dire dei libri antichi.