Quinto album di studio in dieci anni, Decade (Record Kicks) è il disco più eterogeneo, complesso e importante che Enrico Gabrielli, Massimo Martellotta, Fabio Rondanini, Luca Cavina e Tommaso Colliva, produttore e di fatto quinto membro della band, abbiano mai dato alle stampe. Oggi dire Calibro 35 significa evocare sì il patrimonio a lungo dimenticato delle grandi colonne sonore dei b-movie degli anni settanta ma, soprattutto, una delle formazioni musicali che ha fatto dell’eccellenza tecnica, compositiva e performativa uno dei suoi principali marchi di fabbrica.
Eppure quando nel 2008 uscì il disco omonimo con due inediti e le interpretazioni, fedeli e personali allo stesso tempo, dei grandi maestri del genere (Micalizzi, Morricone, Bacalov, Trovajoli, i fratelli De Angelis) chissà in quanti sarebbero stati disposti a scommettere sulla longevità del gruppo e sulla sua evoluzione. Perché Calibro 35, nato come progetto derivativo nelle intenzioni e inevitabilmente retrò nel gusto, ha saputo nel tempo smarcarsi dalla dimensione dell’omaggio riuscendo a imporre una propria voce nel panorama non solo italiano grazie, come si diceva, alla notevole personalità di tutti i musicisti coinvolti, alle loro incredibili doti tecniche, alla capacità compositiva caratterizzata da un’attenzione spasmodica ai particolari che, insieme all’uso di strumentazioni vintage, hanno arricchito e ampliato, negli anni, la tavolozza musicale ed espressiva dei cinque, pur senza mai tradire un suono legato a un crime-funk dall’inconfondibile groove.
Decade è oggi, senza mezzi termini, il punto più alto raggiunto dalla loro produzione. I dieci anni di militanza non vengono festeggiati con una raccolta auto celebrativa bensì con un disco totalmente proiettato sul futuro della band che qui per la prima volta è affiancata dal progetto cameristico di Enrico Gabrielli e Sebastiano de Gennaro (alias Der Mauer): gli Esecutori di metallo su carta, ensemble sui generis che da qualche anno si dedica a un lavoro di riproposizione e ricerca della musica colta del novecento. Non un progetto strettamente accademico ma un modo “altro” di porsi nei confronti della musica contemporanea (nel senso storico del termine e cioè novecentesca, come in quello più strettamente temporale) che tenga però sempre presente la dimensione POP della musica anche colta spazzando via la polvere del tempo e quel senso di ossequioso rispetto che facilmente la parola “classica” (impropriamente usata) provoca nell’ascoltatore di musica leggera.
Gli Esecutori di metallo su carta non fungono qui da orpello barocco, né tantomeno da pur nobile strumento di arrangiamento, arte in cui pur Gabrielli eccelle (sarebbe impossibile e inutile far l’elenco dei progetti cui ha collaborato come arrangiatore, basta citare solo l’esempio più alto quello delle orchestrazioni per Fantasma dei Baustelle). Sono invece elemento assolutamente coerente e integrato nella composizione dei pezzi, rappresentando non solo un valore aggiunto ma una sfida carica di nuove potenzialità espressive.
Decade, fin dalla copertina e in molti dei titoli, non è un omaggio diretto al mondo della celluloide quanto a quello dell’architettura. In particolar modo alle esperienze nate entrambe nel 1966 a Firenze del Superstudio e della Archizoom Associati: avventure avanguardistiche, brillanti, utopiche e radicali terminate agli inizi degli anni settanta, omaggiate con due brani dell’album. Ulteriori riferimenti all’architettura li troviamo in Modulor che richiama la scala di proporzioni basate sulle misure dell’uomo creata da Le Corbusier (ne troverete facilmente traccia visitando le Unité d’Habitation di Berlino e Marsiglia) e in Polymeri. Del resto le undici composizioni che formano Decade sono a loro volta delle autentiche architetture sonore, capaci di stupire ascolto dopo ascolto e attraverso le quali i Calibro 35 ci conducono dentro un universo di impressionante densità creativa e musicale.
A colpire fin dal folgorante incipit è l’attenzione verso la musica africana già lambita in Bushwick, Nigeria (Dalla Bovisa a Brooklyn, 2012) e in Ungwana Bay Launch Complex (S.P.A.C.E., 2015). Psycheground, infatti, apre il disco con una fanfara di fiati in pieno stile afrobeat, il movimento nigeriano di Fela Kuti, con la batteria e il clavinet a dialogare subito su un intenso groove che si mescola con il classico sound da soundtrack, quindi a un assolo di sax di Gabrielli spetta il compito di condurci fino all’entrata in scena degli archi che si dispiegano con grande forza melodica. SuperStudio ha un inizio Calibro 35 al 100%: batteria, fiati, basso, groove a mille. La sezione degli archi entra prepotentemente per poi lasciarsi andare a un ritmo molto più lieve e disteso con una chitarra quasi à la Nile Rodgers mentre il nuovo ingresso degli archi in crescendo richiama addirittura l’Histoire de Melody Nelson di Serge Gainsbourg.
Faster Faster! gioca con forme più jazzistiche e sembra quasi di stare nella New York del proibizionismo e dei gangster mentre a poco a poco l’incedere del brano esplora territori decisamente cinematografici e da grande big band come a ritrovarci in un fumoso jazz club. Pragma mantiene ancora l’atmosfera jazz ma la contamina con forme più contemporanee; definito dallo stesso Colliva come un pezzo afro-math si rifà a forme jazzistiche più spurie e sperimentali, influenzate dall’elettronica (non vi sorprenderà scoprire ritmi affini ai Radiohead) con influenze dichiarate quali Tony Allen, Jaga Jazzist e Budos Band.
L’inizio di Modulor è affidato a una melodia inquietante e sospesa grazie al synth di Tommaso Colliva che richiama le atmosfere plumbee di Warszawa di David Bowie e Brian Eno per aprirsi, poi, su una complessa struttura ritmica grazie all’intreccio tra Rondanini e Cavina che qui imprimono un groove che sa di hip hop sperimentale à la Makaya McCraven, Yussef Kamaal e Oddisee, riuscendo a costruire un’atmosfera quasi ipnotica dentro a un loop di synth.
ArchiZoom è un pezzo invece più classico dove regna l’organo Eko Tiger di Gabrielli e Rondanini accarezza le pelli con le spazzole. Gli Esecutori di metallo su carta qui fanno sentire la loro presenza soprattutto nella sezione fiati ma non manca un vibrato degli archi capace poi di sciogliersi in una suadente onda melodica che attraversa la composizione da parte a parte.
Introdotta da un incidere ostinato degli archi, Ambienti è, invece, un brano capace di fare colonna sonora a se stante. È un pezzo in cui, grazie soprattutto alla presenza degli archi e dei cori, si raggiungono picchi di forte tensione emotiva che attraversa il pezzo come in una carrellata cinematografica capace di accompagnare con differenti sfumature gli ambienti che percorre.
Agogica è forse il pezzo più importante dell’intero disco che grazie anche a un video della registrazione in studio ci consente di osservare la complessità del lavoro dietro il prodotto finito. È il brano che più di tutti gli altri ha visto il lavoro dell’intera band. Parte con la percussione di un solo tasto del pianoforte da parte di Gabrielli, quindi sul Prophet Five ancora di Gabrielli entra il Vibraphone di De Gennaro, e ancora gli archi pianissimo (Yoko Morimyo e Angelo Maria Santisi). All’unisono entra il basso di Cavina insieme alla sezione dei fiati (Roberto Dazzan, Denis Beganovic e Giovanni Colliva) mentre Martellotta aumenta la quota dei synth con il suo Arturia MiniBrute. L’ingresso di Rondanini apre la prima sezione del pezzo, quindi dopo il flauto di Domenico Mamone è infine la chitarra di Martellotta, in perfetto stile Morricone, a spalancare, insieme agli archi, orizzonti che richiamano e omaggiano il Tema di Milano Calibro 9 composto da Luis Bacalov per l’immortale colonna sonora dei napoletani Osanna. Dopo lo splendido giro di basso di Cavina ecco di nuovo gli archi e gli altri strumenti fino al nuovo inciso per finire con la linea melodica del flauto e gli archi diretti da Gabrielli in diminuendo.
Polymeri è un pezzo breve scritto da Rondanini, che spezza la forte tensione di Agogica ripiegando su un pezzo più sperimentale e d’avanguardia. Si apre con le note del Waterphone, particolarissimo strumento ad arco cui si deve il suono stridente in sottofondo e soprattutto il Balafon, tipico strumento a percussione dell’Africa Occidentale sub-sahariana, sorta di xilofono di legno (più simile dunque alla txalparta basca) su cui Rondanini costruirà un ritmo sensuale e incessante mentre Gabrielli si dedica al Dan Bau, strumento a una sola corda della tradizione vietnamita.
Nata in fase di lavorazione col nome di minimal-afro, Modo è un pezzo che fin dal primo istante svela i suoi intenti. La frase affidata ai fiati è ripetuta in maniera ossessiva (su tutti i minimalisti qui è forte soprattutto l’influenza di Steve Reich) mentre subentrano note leggere al piano, s’intravede una linea di basso, su complicati tempi di batteria entrano i fiati ancora in suggestione afrobeat. I synth costruiscono un ulteriore tappeto sonoro. Nella seconda strofa sulla ripetizione minimalista il piano si fa più prepotente, quindi la marimba di De Gennaro dà il via a una grande festa di ritmi da Africa nera che si stringono in cerchi sempre più ipnotici su cui aleggia lo spirito di Sun Ra.
Sono passati quaranta minuti, e questo viaggio sembra destinato a finire con l’ultima traccia. Travelers, firmata da Martellotta è un brano differente dal resto del disco, colonna sonora che cita le atmosfere classiche e che sposta in là i limiti dell’ensemble cameristico per approdare a un suono decisamente più sinfonico con un grandissimo senso cinematico. Chiudendo gli occhi ci sembra quasi di attraversare lo spazio di un cielo capovolto come quello della copertina. E, come nella città infinita disegnata da Luca SoloMacello, siamo cullati dall’idea che questo disco possa non finire mai.