Venerdì 19 Febbraio. Al Lanificio 25 di Napoli, lo splendido complesso dietro Porta Capuana c’è quello che viene presentato come “l’evento più atteso della stagione”. Fuori al portone del Lanificio c’è una coda con un centinaio di persone. Siamo accreditati ma non vogliamo saltare la fila, capiamo subito che una delle cose più interessanti della serata sarà vedere chi c’è, perché è venuto qua, comprendere il fenomeno Calcutta, il cantautore di Latina celebrato prima dalla critica di settore, poi da quella Mainstream, come il nome del suo secondo album. Sono passate da poco le nove e mezzo, per il concerto ci vuole un’ora abbondante, quando a un tratto una voce sotto il portone comunica il sold out. Avanziamo tra la folla, presentiamo le nostre credenziali ed entriamo. C’è una fila lunghissima, quasi tutti devono fare la tessera del locale ed è il primo dato che registriamo, c’è gente che non frequenta abitualmente questi posti, che è venuta qua solo per sentire Calcutta. Il locale in realtà è già strapieno, poco spazio in fondo alla sala, la serata è ancora mite, la splendida corte è occupata da ragazzi che chiacchierano ai tavolini, altri giocano divertiti a biliardino, una coppia vive il suo amore su un divanetto. La musica che la dj passa non è quella di altre sere, c’è Gaetano, c’è Dalla, c’è Battiato, c’è Vasco. Molti, moltissimi cantano a squarciagola Vasco, qualcosa non torna, dobbiamo capire.
Calcutta è il primo a non volere etichette, e fa bene. Calcutta, però, pubblica con Bomba Dischi, non certo con una major, chiunque lo esalti non fa che parlare di lui come prodotto del suo ambiente, quello underground, e anche quando si fa riferimento a tutto l’aspetto pop del suo progetto, si cerca sempre di insistere su qualcosa che allontani la parolina di tre lettere come il disagio giovanile o lo spirito della provincia. Dietro Calcutta c’è però evidentemente anche un gruppo di professionisti che sanno fare il proprio mestiere, sanno imporre un nome nuovo e farlo viaggiare, ne controllano esposizione e immagine: è lo show business declinato lontano (per adesso) dai grandi palcoscenici, ma sempre di business si parla e quello non è mai ingenuo o naïf.
Quando il ragazzo sale sul palco con la sua chitarra, da almeno metà pubblico si alza un’ovazione, ci sono ragazzini e ragazzine, ragazzi giovani ma anche quelli abbondantemente sopra i trenta. C’è chi è arrivato per curiosità, per capire il fenomeno, chi ha ascoltato qualche brano alla radio e si è lasciato incuriosire, c’è l’amante de I Cani o de Le Strisce, il popparolo che ascolta tutto quasi indistintamente, un pubblico di grande consumo ma anche chi, a squarciagola, canta i suoi testi a memoria, esplode al primo segnale del pezzo preferito, chiama qualcuno con il cellulare per farglielo ascoltare, sorride, è contento e balla tra un bicchiere e l’altro.
Nelle prime file si tendono le braccia in maniera ritmica, sembra di stare proprio in una curva come a San Siro per Vasco Rossi, qualcuno ha comprato la sciarpa rossoblù col nome del disco, qualcun altro si guarda intorno perplesso. Calcutta il suo lavoro lo fa, sorprende, dopo alcune prove viste online, che la tenuta vocale sia ineccepibile; rispecchia tutti i limiti vocali senza però compiere alcun passo indietro. Abbozza, mettendo da parte in alcuni momenti la sua timidezza, qualche piccolo siparietto per scherzare con il pubblico: cita Rocco Hunt con “Wake Up Uagliù”, fatto che però, visto come una ruffianeria, provoca qualche fischio e un po’ d’irritazione in una parte del pubblico, porta da bere a una sua fan, invita una fotografa a cantare una canzone ma l’esperimento fallisce. Mentre lo guardi, protetto a inizio concerto dal suo giubbino con cappuccio, ti domandi quanto ci sia di spontaneo, quanto quest’aspetto un po’ goffo come di uno capitato lì quasi per caso sia voluto (furbescamente) o se sia davvero sincero, ma sono domande destinate a restare inevase. Gli arrangiamenti sono basilari, lui stesso aveva detto a Repubblica che “Alla fine l’arrangiamento nel 2015 è una puttana” lasciando, come sempre, mezze frasi su cui poter costruire tutto e il contrario di tutto, il ritratto del provinciale incompreso o il furbetto che ha capito come imporsi.
Mi guardo intorno e mi sento al centro di qualcosa, senza essere assolutamente a mio agio, ma nello stesso tempo sorrido perché mi sembra che in qualche modo io stia finalmente riuscendo a capire e che molti nodi finalmente tornino al pettine. Calcutta canta canzoni dal primo disco, più grezze e di minor presa e ovviamente arringa il pubblico con quelli del secondo, che sono i pezzi forti del repertorio, Gaetano, Cosa mi manchi a fare, Frosinone (soprattutto) sono pezzi freschi e orecchiabili che giocano con rimandi alla vita di tutti i giorni, sconfitte quotidiane e piccoli nonsense. Sono gli stessi pezzi che ritorneranno al momento del bis quando a corto di canzoni restituisce alla folla l’entusiasmo delle hit, non prima di aver cantato Arbre Magique prevista in scaletta ma saltata per distrazione. Ci sono immedesimazione, condivisione e allegria, ma è davvero questa l’altra faccia della musica italiana a una settimana di distanza dalla kermesse sanremese?
Nel 2002 quando uscì “Quello che non c’è”, gli Afterhours avevano già alcuni album alle spalle, Agnelli aveva dieci anni in più di Calcutta, una sua precisa poetica, un suo seguito e un pezzo, Bye Bye Bombay, che stava per diventare un inno da sottopalco. Al di là del gioco di parole, tiriamo in ballo gli Afterhours perché probabilmente erano e sono la band più rappresentativa di tutto il movimento indie a partire dagli anni novanta, quelli in cui di fatto comincia a prendere forma il concetto stesso di indie in Italia. Un universo abitato da Afterhours, Massimo Volume, Marlene Kuntz, Verdena, Cristina Donà, Paolo Benvegnù, One Dimensional Man. Tutti con una certa idea di maturità, di ricerca poetica sui testi e di soluzioni musicali inedite nel tentativo di adattare alla scena italiana grandi movimenti emersi fuori dai nostri confini. Poi pian piano qualcosa è iniziato a cambiare, fino all’arrivo di un’ondata cantautorale che ha visto, tra gli altri, Dente, Brunori Sas, Colapesce e Di Martino, e infine Calcutta. Hanno padri putativi nobili e comuni: De Gregori, Rino Gaetano, Lucio Battisti che mescolano in modo diverso contaminandoli con altre influenze, con nomi meno storici e con suggestioni contemporanee di maggiore tendenza, talvolta con originalità, talvolta con molta meno. Edoardo D’Erme, questo il suo vero nome, sembra portare sulle sue giovani spalle tutti i pregi e i difetti di questa nuova ondata. Nessuno ha conosciuto il suo stesso clamore va detto, e forse nessuno ha cercato così platealmente un pubblico più ampio. Davanti ad un’evidente carenza timbrica, la sua poetica, se così vogliamo chiamarla, spesso non va oltre calembour divertenti o improbabili rime baciate. Musicalmente non si riesce ad assistere a grandi invenzioni, alcune sue cose assomigliano (come del resto Kurt Cobain di Brunori) a un Cremonini appena più sporcato per farlo sembrare indie e più appetibile a chi, riviste, critica e pubblico, guarda sdegnoso al mondo della fruibilità commerciale. Solo i pochi momenti migliori richiamano il primo Vasco e l’onnipresente Rino Gaetano.
Naturalmente il problema non è il tentativo di accedere a una platea più vasta, tutt’altro. Il problema è che per fare questo sembra avere scelto una strada fatta di motivetti accattivanti, di piccoli inni pseudo generazionali che non sconvolgerebbero nessuno se provenissero da un talent.
Calcutta sembra il cavallo di Troia che muovendosi nell’underground ne prende alcuni stilemi, un certo modo di cantare, una certa idea di suonare e la svuota di senso per poi consegnarla all’universo del mainstream, non quello capace di scommettere su talenti di qualità (un nome storico su tutti: Carmen Consoli) ma quello che ha deciso che la musica deve essere solo consumo. È il Tony Blair che riporta alla vittoria il Partito Laburista e pian piano lo corrode dall’interno distruggendone la storia o della storia speculare di Matteo Renzi col PD. Operazioni di restyling con molto hype e grande clamore, che tacciano di gufismo o di snobismo chiunque provi con un dito a svelare il trucco dietro un’apparente facciata pulita, mentre, dietro la rinfrescata di pittura, pilastri e mattoni si corrodono irrimediabilmente. Chi produce tutto questo, come movimento, non come singola opera, ha fiutato l’aria e la cavalca, sa che viviamo un’epoca di disimpegno, in cui i problemi quotidiani devono essere allontanati da un sorriso e da un motivetto semplice, ha visto il trionfo di pubblico e critico di Zalone, si è accorto anche della propensione di certa critica ad assecondare il gusto meno attento del pubblico. Pubblico che in alcuni casi sembra assomigliare a Fantozzi che costringe il megadirettore a guardare Giovannona Coscialunga perché colpevole di considerare grande il cinema di Ėjzenštejn. Un pubblico 2.0 che sta perdendo la dimensione del disco come opera in sé, che preferisce passare da un pezzo all’altro dell’iPod, come la ragazza nella corte del Lanificio che a concerto finito, mentre parte dagli altoparlanti “Stormi” di Iosonouncane (che suonerà qui il 23 aprile), si esalta convinta che sia un pezzo di Calcutta che ha invece ormai già guadagnato l’uscita del palco. “Ma non mi importa se non mi ami più” è il grido liberatorio da parte di chi ha, evidentemente per troppo tempo, ascoltato qualcosa che non gli piaceva e in cui aveva smesso di identificarsi e non ha avuto il coraggio di cantare altro perché non si può e non si poteva, ma anche quello di una nuova generazione che sta scalzando quella precedente e il sistema di valori in cui credeva. È l’italiano che ricorda di esserlo e vuole una canzoncina facile che ritrae piccoli mondi e piccole esperienze nelle quali in tantissimi si riconoscono, quello che a fine concerto balla Max Gazzè passato dalla dj senza doversi sentire (finalmente) in colpa cedendo in maniera gioiosa a una deriva assolutamente pop che non lascia pensieri, a volte senza spessore e senza consistenza.
Manuel Agnelli ha ormai quasi cinquant’anni, molti dei quali passati a scatarrare sui giovani d’allora, molti grandissimi se ne sono andati. In questo contesto, il successo di Calcutta è l’incontro a metà strada tra una strategia di marketing dall’alto e un flusso popolare dal basso che aspettava questa evoluzione. Il popolo dell’indie sta cambiando, una parte sta invecchiando insieme ai propri idoli, e quella che invece vive la sua gioventù sceglie di celebrarne altri. Calcutta ha, in questo sistema, il sacrosanto diritto di continuare per la sua strada, mescolando Webnotte con Il Mucchio Selvaggio, citazioni criptiche e linee poetiche piuttosto discutibili e ha anche il diritto di ficcarci dentro la testa un motivetto carino che magari canteremo la sera sotto la pioggia. Noi abbiamo il diritto di considerare tutto questo qualcosa che attiene più all’intrattenimento e di pretendere dalla parte più profonda della musica italiana e, sia detto con chiarezza, non necessariamente da quella indipendente un sussulto che sia capace di invertire la rotta. Che non si ancori a una nostalgia del passato ma che sia invece capace di parlare alle nuove generazioni senza scendere a compromessi artisticamente tanto redditizi quanto facili.
Scaletta:
- Limonata
- Frosinone
- Cane
- Fari
- Milano
- Gaetano
- Le barche
- Dal verme
- Cosa mi manchi a fare
- Del verde
- Pomezia
- Amarena
- Dinosauri
- (BIS) Cosa mi manchi a fare
- (BIS) Frosinone
- Arbre Magique
- (BIS) Gaetano
Tutte le foto sono di Michela Sellitto