Va in scena un teatro dell’assurdo alla serata c2c di venerdì a Milano, con Daniel Lopatin, alias Oneohtrix Point Never, perfetto attore protagonista, ma azzeccato in tutte le sue componenti, dalla scelta della location alla variegata e multiforme platea che ha deciso di assistervi.
La serata è fredda e piove forte quando raggiungo il locale e, inzuppato come sono, accolgo come una benedizione l’assenza di coda all’entrata. Il leggero anticipo mi permetterà di ambientarmi un attimo e dare un’occhiata in giro. Ansioso di levarmi di dosso il cappotto mi lancio verso il guardaroba, che a prima vista sembra incustodito, ma la mia attenzione viene catturata dalle tante locandine di più o meno note pornostar che mi fissano con fare invitante. Mentre ricambio il loro sguardo insistente e cerco di raccapezzarmi (l’ex cinema Aramis nel 1997 è diventato il primo locale di Lap Dance in Italia), da dietro un acquario stile sushi-bar sistemato sul bancone sbuca una signora attempata, che con sguardo severo dietro due lenti spesse mi riporta alla realtà.
Definire insolito lo spettacolo che mi si pone di fronte è eufemistico: al centro della sala c’è un piccolo palco circondato da una pista delimitata da sei cubi massicci su cui si ergono imponenti pali, sentinelle a difesa di una linea immaginaria che pare pericoloso varcare. Nel perimetro circostante, quelle che immagino essere le antiche poltroncine del cinema sono state riorganizzate in modo da formare piccoli salottini. L’ambientazione ha delle chiare pretese retro-futuristiche, con manichini semi-svestiti che spuntano qua e là, ma una grossa statua della libertà sembra strizzarmi l’occhio compiaciuta quando nella mia testa si staglia nitida la parola kitsch.
Nel frattempo i ritmi tribali dei Primitive Art, che aprono la serata, cercano di scaldare il pubblico che pian piano fluisce nel locale e che, forte del numero, con coraggio si sta avvicinando al palco. Non manca troppo all’arrivo di OPN, ho giusto il tempo per una sigaretta nella smoking area situata al piano di sopra: un palco da teatro dell’opera con vista panorama e spazio sufficiente per due file di persone in piedi, al massimo. Un ragazzo dell’organizzazione mi informa però della possibilità di affittare un letto, dietro, in posizione rialzata. Confuso, scendo, e cerco rifugio in un gin tonic.
È quasi l’una quando si apre il sipario – letteralmente – e OPN sale sul palco. La gente, ormai conscia del fatto che si può eludere la rigida sorveglianza dei pali senza incorrere in rappresaglie, scansa i cubi e si stringe curiosa sulla minuscola pista. Un rapido cenno di saluto e si parte: il volume è altissimo e nei primi dieci minuti riesco a riconoscere abbastanza distintamente i giri di I Bite Through It, seguito a ruota da Mutant Standard, i primi due singoli estratti da Garden of Delete. Gradisco, la gente anche sembra apprezzare intorno a me, inizio semplice.
Seguono però lunghe sequenze in cui si alternano momenti di noise estremo, cinguetii di immaginari fringuelli elettronici, qualche voce aliena (che Lopatin esegue in prima persona) e pesanti gracchiate. Non c’è ritmo, ma questo lo si supponeva; non c’è melodia, questo meno. A tratti sembra che OPN si diverta a provocare il pubblico, testandone il limite di sopportazione: che la struttura dei suoi pezzi sia sostanzialmente stilizzata è questione risaputa, ma la totale assenza di armonia alla lunga diventa difficile da accettare. Gli sforzi per afferrare la logica di ciò che sto ascoltando si rivelano ben presto vani e la mia attenzione si sposta inevitabilmente a un livello più banalmente visivo.
La folla è immobile e attonita, certamente più sconcertata che ipnotizzata. Mi accorgo che vicino a me una ragazza in look total black si muove in modo frenetico: la guardo speranzoso – magari ha colto qualcosa che a me sfugge – ma i suoi occhi girati e la mascella contratta mi confermano che sta ballando una musica diversa che suona solo per lei. Mi concentro allora sulla scenografia (piuttosto scarna) che consiste in due pannelli verticali posti ai lati dell’ ampia postazione da cui Oneohtrix sta suonando e faccio appena in tempo a scorgere frammenti di immagini steampunk sulle note di Sticky Drama, che uno dei due pannelli su cui vengono proiettati inizia a funzionare ad intermittenza.
Il problema è forse proprio questo: la sperimentazione di OPN non permette di distinguere (e quindi forse di giudicare?) ciò che sta avvenendo. A prescindere dalle varie etichette e neologismi coniati per definire la sua musica (vaporwave, hypergrunge, per citarne alcuni). Lo spettacolo che l’artista statunitense sta offrendo sembra immune a qualunque parametro di valutazione, eccezion fatta per la reazione del pubblico presente che appare indifesa vittima sacrificale, costretto da una continua alternanza tra note stridenti e improvvisi silenzi in grado di raggiungere inaspettate vette di sadismo musicale, inflitte dal genio (incompreso?) dell’uomo che sta dietro la consolle e che ci guarda con un ghigno a tratti beffardo.
Scorrono via veloci gli ultimi minuti e riesco ancora a riconoscere le note di Repossession Sequence, No good e Freaky Eyes, ma sembrano salvagenti a cui aggrapparsi in un mare in tempesta di infinito malessere. Poi è solo sipario giù, in una performance durata un’oretta scarsa ma a tratti parsa interminabile.
Mi illudo che un secondo giro al bar possa fornirmi energie sufficienti per continuare la nottata, ma la verità e che mi sento fiacco e frastornato e ho giusto le forze per aspettare l’inizio della techno di Actress (altro ospite della serata) prima di tornare a riprendermi il cappotto; mentre esco mi volto indietro e mi pare che qualcuno stia addirittura ballando e che anche la ragazza in nero sia a tempo con la cassa dritta; inspiro a pieni polmoni sotto la pioggia che non è cessata, provo quasi sollievo, sensazione post-concerto a me del tutto nuova.
C’era attesa per il ritorno in Italia di Oneohtrix Point Never dopo l’anteprima offerta a novembre al C2C di Torino, non foss’altro che per dissipare quei dubbi di riproducibilità live della sonorità sperimentale che contraddistingue il suo ultimo lavoro, Garden of Delete. Dubbi che assurgono invece, a posteriori, allo status di probabili certezze. Vedremo cosa succederà con ANOHNI, progetto di cui è co-produttore con Antony Hegarty e Hudson Mohawke, se qualcosa sarà cambiato.
Le foto sono a cura di Francesco Pattacini