#C2C15: Un racconto distopico

Foto di Alessandro Bosio©, tutti i diritti riservati

se ci fai caso le fermate intermedie della metropolitana sono un po’ come i ristorantini che ci siamo girati dalle quattro del pomeriggio, accumulando cene su cene di preserata diversi costituiti da tanti gradi e persone che se hai rincontrato non te le ricordi più. Le storie sono fatte di tanti partecipanti, se ci pensi, e si conformano una all’altra appena si toccano. Le occasionali file al bagno ti dicono più di quello che non vuoi ammettere appena entri, fra la perquisizione e quanto era difficile trovare qualcuno con l’accendino che avevi prestato, ora ammasso di rifiuti insieme alle tante bottiglie schiacciate. Un cimitero per chi si stava godendo la festa. Quando siamo entrati i Battles avevano appena iniziato a prendere a pugni la batteria e già qualcuno chiudeva gli occhi. Immergersi è stato facile. È passato in un attimo, la fase di riscaldamento, quella del troppo freddo a un tavolino e quella del troppo caldo dopo, quasi a sorridere per la prima goccia di sudore che il tuo corpo riusciva a spillare, segno di un recuperato ricircolo di forze. Il suono delle ginocchia che scricchiolavano ha iniziato presto a saltare fuori, insieme a qualche fegato schiacciato e qualcuno che se ne usciva abbracciato. C’era buio negli angoli e ti ho vista seduta a piangere da sola, ma poi il ritmo si è ripreso la mia dolce forza e non ti ho più rivista. Mi sono chiesto come poteva quel piano stare in equilibrio a una gradazione così esasperata, o perché quel piatto così in alto facesse così tanto rumore quasi da coprirci i battiti. Forse perché non eravamo ancora davvero vivi e ci siamo fatti passare dentro qualcosa che battesse di più.

Di nuovo fuori a prendere aria. Se ne sono andati fra gli applausi, ed era solo l’inizio di qualcosa di unico che sentivamo già prima di arrivare. La tensione delle grandi occasioni, su come sia il tragitto verso qualcosa che avrebbe potuto renderci nuovi, se ce ne ricorderemo ancora fra un anno, quasi l’insperato arrivo in finale della tua squadra del cuore, e un po’ te lo sei sentito che partivi outsider vincente. Non tanto per la stanzialità che meriti, era più un affare di covare certezze. L’abbiamo persa subito quella della metro con noi, non capivo se volesse qualcosa o soltanto non essere sola come nella Berlino che ci aveva raccontato. Eravamo lontani, all’inizio, cercavamo di ripararci dall’imminente scoppio. Sono bastati quattro bassi per farci capire che sarebbe arrivato presto il momento e noi avevamo già più black out che rivelazioni. Siamo andati a mescolarci insieme agli altri, più avanti da noi, potevamo sentire il pavimento che ci tremava sotto i piedi ma questa volta non ne avevamo paura. Se questa è musica di solitudine, ci ha detto in uno schermo un vecchio greco, allora forse è della razza migliore. Abbiamo iniziato a farci spazio, appena prima che finisse Four Tet, e già non riuscivamo a muoverci. Quanti occhi verdi si sono accesi irradiati dalle luci mentre passavi, quanti fiati hai incrociato solo per un attimo. Dichiarazioni d’amore passeggere solo per avere un filtro. È bello aspettare, ti sei detto in quella lunghissima pausa che ha messo in down tecnico più di un combattente, è bello aspettare di più, perché così non arriva mai e non può finire. Il momento profetico al suo arrivo, che avresti urlato se è questo in fondo vivere fra le sigarette e le punture di spillo, i nervi che ti dicono quando il loro tirare si è fatto estremo. E cos’era meglio, continuare a guardare, scansare i telefoni che ti ostruivano la vista, o chiudere gli occhi e prenderti altri sensi. Pensare alle persone che con così tanta apparente facilità riescono a farne stare bene altre, sincronizzare i movimenti e le necessità di tutti. È un’occasionale magia, quella dei borsellini e degli occhi scavati così tanto da potersi guardare dentro, mentre fuori è un susseguirsi di volti che ti sembravano quanto meno famigliari. Ci siamo persi di vista, come tanti, e ritrovarsi sembrava una fortuna unica. Anche l’ultimo è arrivato, quando ormai l’orologio aveva ripreso a girare. È stato solo un attimo. Una macchina che non poteva fermarsi e che più benzina consumava più ne chiedeva. Qualcuno si è messo a spintonarsi ed è stato portato via. Cercate la ragazza cocomero, saprà cosa fare. Ci siamo parlati poco è vero. Ho smesso di farlo e accendere lo schermo era solo un modo per provare a fermare i battiti accelerati che non controllavi più. Stasera non aspettarmi sveglia, stasera non aspettarmi. La nobiltà nei suoi gesti inglesi del doppio x, e il toccare tutte le categorie, ma quel blocco sul groove mi ha un po’ spezzato ma tutti erano così presi, per una volta, e me la sono fatta passare, ancora. Non so se fosse il posto migliore in cui trovarsi, fra l’impazzire delle luci e la controindicazione nell’abbassarlo, non so se fosse un posto abbastanza rumoroso per abbassare il volume di quello che ci siamo detti in tutti questi mesi, ma questo gioco vizioso non si fermerà, nemmeno domani, quando avremo ripreso le armi che per un attimo ci avevano reso tutti così in pace con noi stessi. Siamo usciti che la metro riprendeva a scorrere, ci siamo seduti davanti ai cancelli chiusi perché le nostre schiene non ci reggevano più, assenati alla caccia di un bar, la puntualità del nord ci sembrava dovuto al nostro orario troppo mattiniero.

Credits:

Immagine di copertina: Alessandro Bosio ©

Foto Centrale:  Alessia Naccarato ©

Tutti i diritti appartengono agli autori

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