tutte le foto sono di Michela Sellitto
Quando mancano pochi minuti alla mezzanotte il primo a salire sul palco è Xabier Iriondo. Camicia, gilet, capelli corti e baffo d’ordinanza, imbraccia la prima delle tante chitarre che gli fanno da sfondo. Alla batteria si siede Franz Valente con la sua aria perennemente sperduta, con gli occhi sbarrati e chiarissimi di una creatura misteriosa precipitata da un altro pianeta. L’ultimo a salire sarà Pierpaolo Capovilla, elegante in giacca e camicia scure, a imbracciare il basso, vecchio amore. In mezzo arriva lui, Eugene S. Robinson, cappotto cammello, berretto di lana, guanti, fisico imponente.
Il pubblico che si stringe sotto il palco è arrivato alla periferia di Napoli, comune di Frattamaggiore, in un’anonima traversa di una tipica zona residenziale dell’area nord, villette venute su in mezzo alla campagna, non lontano dal centro storico. Qui, alla fine del 2015, è nato grazie a Tiziana Palmieri (musicologa di formazione, titolare del progetto e direttrice artistica) il Sound Music Club, una cantina trasformata in sala da concerto curata acusticamente e nelle scelte di programmazione, orientate alla ricerca di qualità in progetti unicamente inediti. E che, nel medesimo tempo, non rinuncia a una certa aria che sa di carboneria con il suo ingresso dietro una pesante porta metallica, con la sua atmosfera da covo di iniziati, con le sue luci ridotte al minimo. Dalla zona bar si passa attraverso due ampie porte stile saloon (di quelle che tornano indietro) attraverso un piccolo corridoio che conduce alla sala da concerto vera e propria (che può ospitare circa 300 persone) e sembra quasi di sentirsi come pugili che vanno verso il ring. Se c’è un gruppo di musicisti che più di ogni altro può trovarsi davvero a casa qui, questi sono proprio i Buñuel, all’esordio con A Resting Place for Strangers di cui abbiamo parlato qui.
I signori sul palco rappresentano, di fatto, la storia del migliore indie italiano. Pierpaolo Capovilla riprende lo strumento con cui aveva dato vita, a metà degli anni ’90, ai One Dimensional Man, con Franz Valente (ODM, Il Teatro degli Orrori) che completa la sezione ritmica. A Xabier Iriondo, non solo colonna portante degli Afterhours (se si eccettua l’assenza da Quello che non c’è fino a I milanesi ammazzano il sabato) ma soprattutto grande sperimentatore dello strumento, nella band di Manuel Agnelli come nei tanti progetti paralleli (Six Minute War Madness, A Shor Apnea, Uncode Duello etc.) è affidato tutto il corredo chitarristico.
Alla voce Eugene S. Robinson, leader degli Oxbow, gruppo americano di base a San Francisco che mescola con elegante aggressività noise, post rock, musica d’avanguardia.
Con un solo album alle spalle, per un totale di meno di mezzora, i Buñuel danno vita a un concerto poco sotto l’ora, tiratissimo e incandescente in cui non c’è un attimo per tirare il fiato. Ispirata, nel nome e nelle intenzioni, al film del 1950, Los Olvidados, del grande regista ispano-messicano, la band è un vero e proprio omaggio alle passioni musicali dei quattro, in particolare al tipo di suono per cui è passata alla storia la Touch and Go Records (Big Black, The Jesus Lizard, Slint, Scratch Acid, Shellac e gli italianissimi Uzeda).
All’inizio Robinson sembra avere problemi col microfono, con una manata lo manda giù dal palco insieme all’asta e si rivolge rabbioso direttamente al pubblico senza bisogno di amplificazione giusto per qualche attimo prima che il problema sia risolto. Valente picchia durissimo, Capovilla è devastante al suo basso ricco di effetti, Iriondo è semplicemente perfetto ma è innegabile che l’attenzione degli astanti sia concentrata soprattutto su Robinson, un colosso di rara energia e magnetismo, che alterna frasi rabbiose a mormorii indistinti, e che oscilla tra un atteggiamento da predicatore dell’apocalisse per le sue strade di San Francisco notturne e oscure, ormai lontane dal sogno della Summer of Love, a quello proprio degli stilemi tipici di certo punk hardcore à la Henry Rollins, sporco e cattivo. Il cappotto e il cappello resistono poco, pian piano andranno via camicia e canotta, sul corpo sono in bella mostra tatuaggi di ogni tipo, aquile, serpenti, svastiche, una grossa stella di David d’oro che pende dal collo, gli auricolari tenuti attaccati con due grossi pezzi di nastro isolante e un capello afro che ricorda un Don King incazzato e furioso.
Alle atmosfere cupe e marziali di Cold or Hot fa subito seguito la violenza sonora di This is Love e I, Electrician, dove esplode il talento eclettico e infinito di Iriondo per le distorsioni, il noise, l’uso maniacale della strumentazione, dei pedali, degli effetti (per la prima metà degli anni duemila Iriondo è stato anche titolare e promotore, a Milano, del Soundmetak, un negozio/laboratorio di particolari strumenti e accessori musicali). Due divagazioni dilatate fanno da cornice a Dump Truck (fortissimi i rimandi proprio ai Jesus Lizard e per riflesso al TdO) probabilmente il pezzo più bello dell’intero disco, all’onda sonora di Me +I che vede ospite sul palco la voce femminile di una scatenata Kasia Meow (per il resto della serata impegnata al banchetto dei dischi e delle magliette ma anche autrice della copertina del disco) e ai cambi di ritmo di Streetlamp Cold. Smiling Faces of Children e Whipsaw sembrano chiudere il live ma, richiamata a piena voce dal pubblico, la band ritorna per Jesus with a Cock e per proporre un pezzo nuovo che vede Iriondo strisciare le corde della sua chitarra sulle assi del palco e Capovilla allentare quelle del suo basso, prima di andare definitivamente off stage e intrattenersi fino a tarda notte per una chiacchierata tra un cocktail e una sigaretta.
È un suono primitivo e primordiale quello dei Buñuel, la sezione ritmica è granitica e solo raramente si lascia andare a tempi più lenti, al solo Iriondo è di fatto affidata la parte più sperimentale in cui, inutile dirlo, è come sempre eccellente. In un’epoca in cui alla mancanza d’idee si sopperisce sempre più con inutili, quanto frequenti, fronzoli, in cui alla solidità di una scrittura più autentica si preferisce ricorrere a qualcosa che si muova nei territori ormai abusati dell’easy listening, i Buñuel sembrano voler comunicare il bisogno di un ritorno al passato. Non solo quello dell’amatissima Touch and Go e con essa di quei suoni noise, hardcore, punk e alternative dell’underground a stelle e strisce, ma a quello ancora più lontano che giace in un luogo, non solo musicale, caratterizzato da una specie di brodo primigenio di estrema durezza da cui pian piano inizia a prendere spunto una frase musicale, una linea di basso, un’idea della chitarra. Che questo lo facciano musicisti ormai decisamente sopra i quaranta anni (con la sola eccezione del ben più giovane Valente) è qualcosa che merita attenzione: in un mondo sempre più popolato di fenomeni estemporanei che si sentono arrivati dopo il primo successo o che ripetono se stessi fino a scomparire, qui abbiamo, invece, dei musicisti che non solo non smettono di ricercare (non importa se andando avanti come un’avanguardia o se volgendo lo sguardo alle spalle alla ricerca di un senso che sembra essere perduto) ma che sono anche disposti a fare un passo di lato rispetto a una popolarità ormai acquisita per mettersi al servizio delle proprie idee e di un progetto che, per sua natura, è in grado di richiamare un pubblico sicuramente non vastissimo ma dotato di grande attenzione e consapevolezza.
Scaletta:
- Cold or Hot
- This is Love
- I, Electrician
- Slow
- Dump Truck
- Me + I
- Streetlamp Cold
- Slow Two
- Smiling faces of Children
- Whipsaw
- Jesus with a Cock
- New One