La Tempesta saluta il 2016 con un’uscita esplosiva: l’8 gennaio è arrivato nei negozi di dischi A Resting Place For Strangers, album d’esordio dei Buñuel, progetto non a caso già definito come costruito intorno a un supergruppo. Dentro confluiscono personalità come Xabier Iriondo degli Afterhours alla chitarra, Pierpaolo Capovilla e Franz Valente de Il teatro degli Orrori (rispettivamente: basso e batteria), Eugene S. Robinson degli Oxbow alla voce: quattro musicisti che hanno già dimostrato, nell’arco della propria poliedrica carriera, d’essere dotati di un’elasticità e un’apertura che consente loro di spaziare varcando le demarcazioni di genere, coltivando progetti collaterali e disseminando contaminazioni. Volendo malignare un po’, però, si potrebbe suggerire che se un’etichetta con base in Italia dovesse immettere sul mercato – tanto nazionale quanto estero – un prodotto afferente al rock alternativo con cui conquistarsi il favore dei fan e volesse andare sul sicuro, il modo migliore probabilmente prevederebbe una band fondata dagli elementi appena citati.
Il punto è che, vantaggi commerciali più o meno calcolati a parte, A Resting Place For Strangers sorprende positivamente chiunque abbia orecchie degne di questo nome, e lo fa per molte ragioni. Il per nulla rassicurante – nè tanto meno riposante – luogo che ci viene offerto dai Buñuel , il cui nome rende omaggio al regista spagnolo (è già in questo è contenuta una dichiarazione d’intenti), è un paesaggio distopico, sbirciato dal finestrino di un veicolo spinto a folle velocità, a cui la duttilità vocale di Robinson conferisce sostanza e legittimità, traghettando l’ascoltatore lungo nove tracce in cui sono individuabili moltissime influenze (non poteva essere altrimenti, considerato il sostanzioso ed eterogeneo bagaglio musicale che i quattro portano in dote) ma che danno vita a un linguaggio essenzialmente nuovo e non confinabile all’interno di una qualche confortante definizione.
Incipit di questa discesa negli abissi, non scevra da una compiaciuta ironia, è la sospesa e cantilenante Cold or Hot, un brano che anticipa la natura “episodica” della struttura di molti dei pezzi successivi. Ma è con brani come This Is Love e I, Electrician che si entra nel vivo di un disco che, in quanto a sound e atmosfere, riporta alla mente i Nine Inch Nails (quelli raffinatamente, cruentemente brutali di The Downward Spiral): un richiamo che passa tanto per lo stile (impossibile in certi momenti non pensare a quella tanto caratterizzante batteria di March of The Pigs) quanto per contenuti dissacranti. Non l’unico, comunque: dall’industrial stile Ministry allo stoner rock dei Queens of The Stone Age (Jesus with A Cock), da Marilyn Manson ai Soundgarden (Streetlamp Cold), i riferimenti si incrociano e si confondono, ben metabolizzati, assopiti nelle stratificazioni e negli arrangiamenti di un prodotto che, nella sua natura profondamente “corrotta”, si delinea come schiettamente originale.
Allorché, a oltre metà album, ci si convince d’aver individuato almeno alcune delle trame di questa convulsa, violentissima suite costituita da nove capitoli, essa ci esplode tra le mani risvegliando i fasti dei Sonic Youth di Dirty con un pezzo-gioiello come Me and I per subire ulteriori metamorfosi nei due brani di chiusura.
Un ruolo determinante nel risolvere l’identità di questa prima fatica dei Buñuel, tanto dell’album nel suo insieme quanto nell’eterogeneità di ogni suo singolo brano e dei mood che lo attraversano, ce l’ha la batteria di Valente: crea e disfa tensioni, si adatta e – anzi – dirige l’anima cangiante di questo lavoro. Compito, quest’ultimo, reso possibile anche grazie alla complicità delle straordinarie capacità interpretative (ben rodate all’interno di un progetto come gli Oxbow in cui “libertà espressiva” è la parola d’ordine) offerte dalle linee vocali di Eugene S. Robinson (peraltro registrate in California, mentre gli altri componenti hanno lavorato in studio in Italia).
Se poi dovessimo immaginare, in base a quanto detto, il modo in cui A Resting Place For Strangers possa venir recepito e accolto dal pubblico, dobbiamo ipotizzare che probabilmente disorienterà, entusiasmerà, meraviglierà (e chi scrive si augura che si tratti di uno sconcerto tutto declinato in positivo) ma che, soprattutto, sortirà l’effetto che sempre ci si dovrebbe aspettare da ogni prodotto musicale (o artistico in genere): quello di tradire – e deliziosamente – le aspettative di chi ascolta.