– Lei non è Dostoevskij, – disse la donna a cui Korov’ev faceva perdere il filo.
– Be’, chi lo sa, chi lo sa, – rispose lui.
– Dostoevskij è morto, – disse la donna, ma con poca convinzione.
– Protesto! – esclamò calorosamente Korov’ev. – Dostoevskij è immortale.
Una volta raccontai a un tassista, mentre eravamo imbottigliati nel traffico, di essere stata rapinata, minacciata da un uomo in passamontagna con una pistola che nemmeno ero riuscita a vedere – la cui idea aggredì alle spalle il mio cammino in una notte napoletana, come elettrica materializzazione della fine. Si parlava della città, si ingannava l’attesa assommando come spesso capita prove per un processo distratto ai pro e contro. Raccontai a distanza di tempo la mia esperienza di mortalità applicata con la gola ancora stretta dalla paura. Il tassista, che era a ogni effetto un filosofo, mi chiese: “Beh, cosa è stato tutto quello che mi racconti, in fondo, se non una sensazione?”.
Ecco, è per questo tipo di fugaci schiarite sui miei rovelli interiori, che vivo. Vivo negoziando con l’idea della morte -con la morte stessa ogni trattativa pare preclusa – ogni giorno, come tutti voi, forse un po’ di più di alcuni di voi. Vorrei poter dire che la filosofia, e non solo quella del tassista, abbia sconfitto definitivamente la paura: di vivere, di morire, di sentire. Mentirei. La fantasia, quella sì. Considero la fantasia e il racconto gli unici strumenti possibili, non soltanto per tollerare lo spleen ma per ammettere l’impossibile, per spalancare le porte all’imprevisto, all’inaudito, all’eccezionale.
“Era l’ora in cui sembra di non poter nemmeno più respirare, l’ora in cui, dopo aver arroventato Mosca, il sole sprofonda in una nebbiolina secca, laggiù, oltre il cerchio della Sadovaja, ma nessuno era venuto sotto i tigli, nessuno sedeva sulle panche; il viale era deserto.”
Il Maestro e Margherita si apre come un quieto sbadiglio, appena insidiato dalla calura e dalla sete. Due letterati si precipitano verso un chiosco variopinto “su cui spiccava la scritta Birra e bibite”. Piccoli accadimenti singolari interferiscono con la conversazione – di cui il lettore ignora l’argomento – che si presume fosse in corso tra i due: Berlioz e Ponyrev. Uno strano singhiozzo li disturba, Berlioz viene preso da un improvviso terrore, da una sensazione inspiegabile.
“Ma in quel momento l’aria torrida si addensò davanti a lui e ne uscì fuori, come tessuto nell’aria, un signore trasparente, di aspetto oltremodo singolare: berretto da fantino sulla testa piccola e giacchetta striminzita a scacchi, anche quella intessuta nell’aria. Il signore era alto un paio di metri ma stretto di spalle, incredibilmente magro e, prego notare, con la faccia beffarda.”
Tra incredulità e sgomento, la ragione ha la meglio: la conversazione tra i due prosegue e il lettore scopre che il tema del confronto è l’esistenza di Gesù. Non vi è dubbio che Gesù non sia mai esistito, per i due letterati; il problema è semmai raccontarlo, scriverne con efficacia affinché risulti una figura inesistente, quindi non soltanto dotata di tratti negativi, ma proprio storicamente non esistita.
La comparsa di quello che sulle prime si direbbe un eccentrico straniero, un personaggio che sfugge a ogni definizione, scompaginerà fulmineamente qualsiasi convinzione dei due. Specialista in magia nera, lo straniero asserisce fermo che Gesù è esistito eccome, e visto che si trova prevede anche la morte di Berlioz, uomo ottusamente pieno di certezze e programmi per la vita, positivisticamente dimentico della fallibilità umana, del sommo potere del destino, organizzato in assurde combinazioni di forze oscure in grado di inchiodarlo come niente all’ultima giornata della sua vita. Ingredienti: un tram, delle strane formule a base di pianeti, dell’olio di girasole versato malauguratamente da Annuska, binari.
Naturalmente sia io che voi sappiamo chi è lo straniero: se non abbiamo mai letto il romanzo sentiamo quanto meno che costui ha strumenti incomprensibili eppure precisi di indagine e previsione. Pur temendolo – o proprio perché lo temiamo – gli riconosciamo l’inaccessibile conoscenza e il dominio sui fatti che racconta. Di più: il suo racconto trasporta noi e in personaggi in un’altra stanza – del racconto, della realtà cesellata da Bulgakov, grondante vita e intagliata per sempre con la forza di un sogno indimenticabile.
“Più di ogni altra cosa al mondo il procuratore odiava il profumo dell’olio di rose e la giornata si annunciava pessima, visto che quell’odore lo stava perseguitando dall’alba. Gli sembrava che il fragrante profumo di rosa emanasse dai cipressi e dalle palme del giardino e che quel maledetto effluvio si mescolasse all’odore di sudore e di finimenti di cuoio della scorta.”
Il sogno di Pilato è una delle canzoni più struggenti di Jesus Christ Superstar, e se nell’Universo esiste qualcosa come la compassione, è composta senz’altro della sostanza di queste pagine e di quella musica. Yesua “the most amazing man”, interrogato da Pilato, lo chiama “uomo buono”. Il procuratore e le seccature del suo incarico, la sua emicrania e un cane, l’unico essere a cui Pilato è affezionato. Calvino diceva che ogni volta che in una narrazione compare un oggetto, questo diventa magico. Il portico del giardino di Ponzio Pilato, un pavimento di mosaico presso una fontana e uno scanno sono visioni tanto miracoloso nelle pagine di Bulgakov, da rendere il miracolo di Yesua una cosa del tutto regolare. Yesua fa sparire il dolore che tormenta Pilato. E così leggere in un cuore, elargire il sollievo e seminare per sempre la compassione, il rimorso e il tormento nell’animo di un personaggio – un personaggio ha dunque un animo? – e dei suoi lettori è il vero miracolo di tutta la faccenda.
Noi esseri umani siamo così afflitti dalla simil-vita, dai simil-sentimenti, da una vasta landa quotidiana di noia e pigrizia, che solo la vita vera: stravolgimenti, distribuzione di granelli di nulla, calamità e terremoti emotivi, dopo il grande sciopero dell’autenticità che segue l’infanzia e le spiegazioni della maestra di scienze, è in grado di insegnarci dove abbiamo il cuore. La vita violenta o l’Arte, un romanzo.
“Seguimi, lettore! Sia recisa la lingua infame al mentitore che ha negato l’esistenza di un amore autentico, fedele ed eterno sulla terra! Segui me, mio lettore, soltanto me, e ti mostrerò un simile amore! No, il maestro sbagliava, quando all’ospedale, nell’ora in cui la notte valica la sua metà, diceva amaramente a Ivanuska che lei l’aveva dimenticato. Non era possibile, lei non l’aveva certo dimenticato.”
Ed eccolo il maestro, l’Amore chiuso nelle stanze della pazzia: pensa a Margherita, al loro amore impossibile e stabilisce una nuova connessione. Stephen King direbbe che a questo punto siamo in contatto telepatico con Bulgakov, le sue idee e il suo mondo si sono trasferiti nella nostra mente. Troppe opere rifiutate lo hanno reso così.
E Margherita?
“Dal momento in cui, diciannovenne, si era sposata ed era andata ad abitare nella palazzina, non aveva conosciuto la felicità. Oh, dei! Che cosa dunque le mancava? Cosa mancava a questa donna, nel cui sguardo ardeva sempre una enigmatica fiammella? Che cosa mancava a questa strega, dall’occhio appena strabico che allora, in primavera era apparsa coi fiori gialli? Evidentemente aveva detto la verità; ciò che le mancava era lui, il maestro, e a nulla le servivano il giardino privato, la palazzina gotica, il denaro. Lo amava, era sincera.”
Il ricordo del maestro non abbandona Margherita, sul manoscritto bruciato (altro oggetto la cui comparsa vibra magia), gettato alle fiamme dal maestro riesce a leggere riferimenti al Mar Mediterraneo, a un procuratore, Gerusalemme e il Tempio, l’abisso disceso dal cielo. Da un nuovo frammento di specchio nel tessuto del racconto emerge un’altra storia, che si ricollega a un sogno fatto da Margherita, al nome scritto sopra un foglio: Ponzio Pilato.
Scrivo questo contributo oggi 2 novembre, giorno dedicato alla celebrazione dei defunti. Lo scrivo nella città di Napoli e questo dato assume una rilevanza nel frammento, nella stanza autobiografica che vado a intersecare al racconto. Assume rilevanza perché in questa città il culto dei morti ha una storia molto fantasiosa. Ingredienti: capuzzelle, fazzoletti, lumini, un tipo di collana detto: rosario. Il culto delle anime pezzentelle, tradizione pagana a metà tra il Messico e la galassia, è legato all’oggetto teschio, detto capuzzella, adottato dal devoto in cerca di una grazia. La capuzzella quindi è mezzo di comunicazione con l’aldilà. A sancire la connessione stabilita con un altro piano della realtà interviene, ancora, il sogno. Se l’anima acconsente alla proposta – do ut des: io prego per te, tu mi fai la grazia, comparirà in sogno al vivente, raccontandogli la sua storia. Per la prima volta oggi ho realizzato che la capuzzella può essere quindi considerata come un telefono o meglio un televisore, che però trasmette solo nei sogni.
“Margherita riappese il ricevitore, e in quel momento dalla stanza vicina si sentì arrancare sul pavimento qualcosa come un pezzo di legno e poi battere alla porta. Margherita aprì: una scopa rovesciata, con la saggina in alto e il manico in basso, irruppe danzando nella camera. La scopa tamburellava sul pavimento, scalciava, si slanciava verso la finestra. Margherita emise uno strillo di entusiasmo, le saltò a cavalcioni e solo allora si accorse che in tutta quella baraonda aveva dimenticato di vestirsi. Si precipitò galoppando verso il letto, afferrò la prima cosa che le capitò a tiro, una camicia celeste e, sventolandola come uno stendardo, volò sulla finestra. Sul giardino il valzer risuonò più forte.”
La fantasmagoria inarrivabile dell’inferno. La libertà che vi soffia direttamente in petto dalle pagine. Mosca dall’alto e l’inebriante abbandono. No, non temete, non vi snocciolerò tutto il romanzo, nessuna pretesa di spiegare alcunché, solo un invito a sentire . A connettervi con il vostro televisore interiore, a telefonare a voi stessi e chiedervi: sei abbastanza vivo? Stai prendendo in minima considerazione il brulicare pazzissimo di questo istante e le infinite possibilità? Belle, brutte, così così. Ma anche incredibili, assolutamente entusiasmanti: da piangere di felicità e ridere di felicità. Rileggere proprio oggi Il maestro e Margherita, è entrare in differenti epoche come stanze interminabilmente comunicanti della realtà, mondi separati da un confine sottilissimo, che dialogano. Per Persefone che è andata e non si rivedrà prima di marzo: ogni giorno meno luce e un’unica certezza, passerà. Per Dostoevskij che è immortale. Per la paura del buio e della fine.
Ingredienti: fiducia, fantasia, racconto.