Ci sono tanti posti a Napoli, che sembra di non essere a Napoli. Quei luoghi nascosti, lontano dagli occhi di turisti occasionali e, talvolta, anche di chi abita la città. Uno di questi è il parco dei Camaldoli: un bosco in collina, pieno di verde e con un Belvedere meraviglioso, da cui si può godere di una splendida vista su tutta la città. Nei mesi estivi, il parco in questione diventa sempre più teatro di concerti e serate all’insegna del fresco e della buona musica ed in particolare, da ormai due anni a questa parte, Bulbart ha adottato questo magnifico posto come location per il suo festival estivo. Due giorni, tantissimi gruppi: da quelli autoctoni fino ai forestieri, dalle band che hanno incendiato la stagione invernale del mitico George Best, fino a quelle nuove, che con buona probabilità ne battezzeranno la riapertura autunnale. Il secondo giorno inizia tardi per me, che riesco ad arrivare al festival solo in tarda serata. Mentre mi inoltro nel parco il brit-pop dei Pipers sta ancora risuonando nell’aria, ma non faccio a tempo a raggiungere il belvedere, che il concerto sembra essere già concluso. C’è buio intorno e l’atmosfera è suggestiva, prendo un posto sulle scalinate e attendo il cambio palco. E’ il turno dei DID da Torino. I ragazzi salgono sullo stage e invitano il pubblico ad alzarsi dalle gradinate perchè “l’ultimo concerto con la gente seduta a cui abbiamo suonato è stato tipo al liceo ed è stato un concerto di merda”. La scaramanzia come incipit per un mix micidiale di world beat. E’ difficile spiegare la loro musica, così densa di ritmi, l’unica cosa certa è che ti fa ballare. Un meltin pot di electro e pop, che riesce a spingersi fino ai confini dell’hip-hop senza mai scadere, ma mantenendo alto il livello dei brani. Un ottimo live che sa illuminare il buio dei Camaldoli, nonostante le luci sul palco non riescano ad accompagnare i suoni come meritano. Poco male. Il set dura circa un’oretta e un nuovo cambio di set ci attende. E’ il turno di His Clancyness, che ho già avuto modo di apprezzare questo inverno, in un affollato George Best. Poco da dire, Johnatan Clancy ci sa davvero fare ed ha il potere straordinario di trasformare in oro tutte le creature musicali che tocca, a partire da Settlefish, fino agli A Classic Education, ma è probabilmente con His Clancyness, che riesce a tirare fuori il suo lato più personale. una sorta di rockabilly psichedelico, melodico e sbieco, da cantare e da cui farsi accarezzare. I suoni sono taglienti, intimi e il climax è ovviamente quella meraviglia che è Gold Diggers, che proprio non puoi fare a meno di sentirti sotto pelle. Un concerto da vedere e rivedere, fino allo sfinimento, fino a far traboccare il cuore di emozione. Gli ultimi a salire sul palco del Bulbart Festival sono senza dubbio la rivelazione italiana dell’anno, rivelazione alla quale il sottoscritto ha sempre guardato con una certa diffidenza. I Soviet Soviet salgono sul palco alle 2 passate per regalarci un assaggio di Fate, e già dalle prime note si capisce che quello che ci faranno ascoltare si prospetta un concerto della madonna. Hanno grinta da vendere i ragazzi di Pesaro e pestano davvero di brutto. Infuocano il belvedere dei Camaldoli con il loro post-punk da combattimento. Pochi brani mi fanno ricredere della sensazione di sufficienza che mi avevano lasciato addosso l’ultima volta che li avevo visti. Certo i pezzi si assomigliano molto, per cui alla lunga il live stanca, ma il piglio con cui i Soviet Soviet violentano i loro strumenti e padroneggiano il palco, è impeccabile. I nottambuli del parco, si lanciano nelle prime file e si lasciano coinvolgere dal pogo in pieno stile punk. Nonostante i numerosi richiami al fonico di sala, il live risulta davvero convincente.
Lunga vita al Bulbart Festival.
Salvatore Sannino