A un mese, più o meno, dall’ultima edizione di Bristol Sound, rieccoci qui. Con tutto questo internazionalismo, ho voluto rispettare le tradizioni nostrane e remare contro il Natale preventivo a cui ci stanno abituando, aspettando l’8 dicembre per mettere gli addobbi alla nostra rubrica, come si faceva con l’albero a casa mia. Bisogna imparare di nuovo a dare il senso alle attese, ecco perché Bristol Sound ha una periodicità così larga… Che vi credevate, che fosse un fatto di pigrizia?
In un mese succedono molte cose: piuttosto che cercare i suoni britannici a Berlino, mi è capitato di recarmi due volte direttamente sull’isola, e a gran sorpresa, sono stati i suoni inglesi a cercare me. In questa edizione non si parla di musica live, ma di due dischi usciti proprio il mese scorso.
Il primo dei due soggiorni, nel primo weekend di novembre, mi ha portato all’estremo nord, in Scozia – ancora ben attaccata all’United Kingdom, con grande dispiacere per gli scozzesi. Dopo aver tanto parlato di Glasgow, nell’ultimo numero, e con il film di Murdoch dei Belle and Sebastian, “God Save the Girl”, ancora negli occhi e nelle orecchie, in occasione di un viaggio in Scozia per motivi più o meno lavorativi ho pensato di allungarmi il fine settimana ed esplorare la città di cui abbiamo parlato nell’ultimo numero. Sentivo il bisogno di verificare se la connessione Bristol-Glasgow funzionasse, come in molti mi avevano detto. La risposta è, inevitabilmente, si. Se col mio solito tempismo sono riuscito ad arrivare sul posto con l’edizione glasgowita del Simple Things appena finita e andarmene due giorni prima del concerto di Thurston Moore, che ormai credo organizzi le sue date in modo da fare dispetto a me, e quindi lo odio, a Glasgow ho avuto modo di passare un’ottima giornata (lunga, serata inclusa) tipicamente bristolese. L’amica deliziosamente scozzese che mi ha ospitato mi ha infatti subito introdotto una sua amica di Bristol da poco trasferita a Glasgow. Un cross-over perfetto fin dall’esordio: entrambe integraliste della bici, si erano conosciute, a conferma, a un festival che si tiene ogni due anni in un’isola sperduta della scozia, l’Isola di Eigg, una versione estrema del Green Man che ho descritto nelle edizioni estive. Abbiamo passato il giorno passeggiando per Glasgow, gozzovigliando per i caffè del West End – il classico quartiere alternativo, senza i graffiti di Stokes Croft ma pieno dei suoi tipici locali – allestendo un enorme pentolone di chili a cena: un ingrediente per uno buttando dentro randomly, come si usa a Bristol, e probabilmente, anche a Glasgow. Quindi siamo andati in un capannone ad ascoltare uno dei tipici duo tastiere, synth e voce femminile, di cui, come lamenta la mia amica, la scena glasgowita sembra davvero zeppa. Infatti ne avevo incrociato anche uno a Bristol qualche tempo fa: i Conquering Animal Sound.
Mentre la serata scivolava via piacevolmente, ci siamo raccontati per intero le nostre vite ascoltando in sottofondo una folk singer bristolese: Rachel Dadd. Si tratta di un’artista che, in un anno speso a Bristol, non avevo mai sentito neanche nominare, il che indica quanti suoni bristolesi ancora mi si nascondono nella città. Come i veri Bristolesi, Dadd è una persona irrequieta: wikipedia ci informa che vive sospesa tra Bristol e Tokyo, e al momento, da quanto risulta dal suo sito, è in giro in tour per l’Australia. Il suo disco ultimo disco, We Resonate, è uscito al mio ritorno a Berlino, un paio di settimane fa, e un mesetto dopo il singolo Strike Our Scythes, di cui è facile reperire anche il video su youtube. Dadd definisce la sua musica “experimental multi-instrumental folk”, e se forse la definizione di experimental, come ogni volta, può facilmente apparire abusata, su quella di multi-instrumental c’è poco di cui discutere. C’è chi addirittura ha scritto che sta dando vita a un nuovo genere: le chitarre folk incontrano strumenti imprevedibili distendendosi in un suono minimale, rarefatto, sospeso, una trama sonora delicatissima ma fortemente evocativa, che trascina la mente in paesi lontani, se non altre dimensioni. Un’esperienza di ascolto decisamente non comune, un suono che incarna efficacemente la nuova identità multiculturale di Bristol, prestandosi bene alla definizione di nuovo Bristol Sound. Ascoltando i pezzi ad occhi chiusi, dopo alcuni minuti, a riaprirli si rimane un po’ male quando ci si rende conto che non stiamo passeggiando per Ashton Court o per una delle viuzze di St-Paul durante il Carnevale del quartiere. We Resonate è il quarto disco di Dodd ed esce per Talitres, un’etichetta indipendente inglese, non più la Broken Sound Music che produce Peggy Sue – anche lei incontrata a Bristol, prima che nascesse questa rubrica – Forest Fire, The Mariner’s Children and Tristram. Dadd ha esordito nel 2008, con After the Ant Fight, e nel 2009 è andata in tour con Alessi’s Ark, e ha suonato con tanti bei nomi della nuova scena indipendente inglese: Laura Marling, Sons of Noel and Adrian, Curly Hair. Ha collaborato regolarmente con Kate Stables nella band Whalebone Polly, con Rozi Plain in The Hand, inoltre è ospite fissa del Glastonbury Festival ormai ogni anno, inoltre appare spesso nei programmi della radio BBC Bristol.
A Glasgow, nonostante fosse il primo fine settimana di novembre, era già Natale. Ma il posto che identificherò per sempre col Natale è Londra, ed è diventata una piacevole tradizione, per me, riuscire a trovarmi a Londra, sempre per motivi più o meno lavorativi, ogni anno in questo periodo, in cui il centro è già tutto potentemente agghindato di addobbi. In particolare, ogni volta sento il forte desiderio di una passeggiata per le stradine di Soho, che presentano le luminarie più stravaganti: le renne lussuriose della prima volta che ci sono capitato, tuttavia, non sono mai state eguagliate. La passeggiata natalizia per Soho mi riempie sempre delle immagini di quella prima volta: era una delle mie prime volte a Londra, ero in compagnia della mia compagna inseparabile dei concerti dell’epoca, faceva freddissimo, pioveva ininterrottamente, passavamo di bar in bar per ripararci, ma eravamo emozionatissimi. Era il 2009, l’anno in cui Rachel Dadd era in tour con Alessi’s Ark. Ma noi eravamo venuti a Londra, invece, per vedere i The Pains of Being Pure at Heart, in quel periodo in tour per il loro primo disco. Erano un gruppo molto cool e sconosciuto ai più, forse al primo giro in Europa, sapevamo che non avrebbe mai suonato in Italia e volevamo vederli a tutti i costi. Non riesco più a distinguere se ero più emozionato per il trip, il concerto, la mia amica, ma in ogni caso di quel viaggio conservo ricordi a metà tra il lirico e l’epico. Dei Pains avevo perso le tracce dopo il primo disco, e ho avuto modo di rivederli distanza di cinque anni, la scorsa estate, a Bristol, al The Fleece. Il povero Kip Berman era rimasto da solo con una band completamente rinnovata – e con alla voce femminile, in prestito per il tour inglese, Jennifer Weiss del quartetto di Brighton Fear of men, quella sera annoiatissima. Per quanto Pitchfork avesse scritto che la giovane promessa è ormai una conferma e il suo disco suoni meglio, quel profumo di teen spirit non c’era più. L’unico superstite puro di cuore, più che un frontman, quella sera mi era sembrato una metafora di vita: il solo entusiasta sul palco a grondare sudore, felice, ringraziare il pubblico, regalare sorrisi newyorkesi e tenerissime battute, più qualche brivido nel momento in cui tra i brani nuovi affiorava qualche hit dal primo, glorioso disco. Ricordo molto bene quella serata, perché ero rimasto molto colpito dalla band che apriva il loro concerto: il posto dei Pains mi era sembrato lo avessero piuttosto loro, i Why We Love. Di tutte le persone coinvolte in quella serata, i Why We Love erano i più eccitati di tutti, perché suonavano in apertura alla loro band preferita. Quella serata ho conosciuto un’altra Rachel – che sia un nome comune a Bristol? – la bassista dei Why we love, minutissima ma piena di grinta, che mi mostrava soddisfattissima la maglietta che Berman le ha regalato dopo la performance. I Why We Love sono una delle più belle storie bristolesi che ho potuto ascoltare in città. Nonostante non abbiano né il nome dei Pains, né delle varie bands che hanno introdotto, a Bristol sono diventati rapidamente popolarissimi – li ho visti varie volte a Bristol, tra Start the Bus, Fleece e Lousiana ne giro di pochi mesi – e pure Big Jeff li cita come sua band preferita locale ogni volta che può. La comunità musicale di Bristol li ha adottati e li supporta ferocemente, e proprio poche settimane fa si sono esibiti anche a Londra. Dei Pains, i Why We Love hanno acquisito le sonorità – quel dream-pop dolce e solare, con le chitarre shoegaze sfolgoranti che ti stampano immediatamente un sorriso sulla faccia – e un entusiasmo fottuto che si traduce in ritmiche rock compatte e vibranti. Anche in questo caso, all’evocazione del ricordo è partita una corrispondenza concreta: dopo mesi di fatica, finalmente l’atmosfera e l’energia dei live dei Why We Love è diventata un EP, Fake a Death. Ascoltando le quattro tracce ripetutamente, da una certa soddisfazione notare che dell’energia live di questi quattro ragazzi in studio non si è perso proprio niente. Fake a Death lo trovate su iTunes, Spotify e Deezer, oltre che Soundcloud, ma se vi capita di fare un salto a Bristol, date un occhio ai locali, è facile che vi capiti di poterlo ascoltare live in uno dei clubs della città.
Intanto, con questi due dischi nelle orecchie, sono atterrato di nuovo a Berlino. All’approssimarsi di dicembre, il Natale è arrivato anche ad Alexanderplatz, inghiottita dall’enorme mercatino,a cui è seguito un “mushrooming” – che parola meravigliosa – di mercatini di Natale in tutta la città. Da un Natale all’altro, insomma, da Glasgow a Berlino, il ponte che le collega a Bristol continua a sembrarmi solido e funzionante. Ma, per favore, per fare l’albero aspettiamo l’8 dicembre.