Sono passate un po’ di settimane dall’ultima edizione di Bristol Sound, e in queste po’ di settimane sono capitate un po’ di cose, tra cui il trasferimento del sottoscritto da Bristol a Berlino. Ma d’altra parte a Bristol si vive un po’ così: nonostante sia un mondo così piccolo, perdersi è incredibilmente facile. L’amico che non vedevi da due mesi lo incontri per caso, ci esci tutte le sere per due settimane, lo perdi di nuovo, poi lo ritrovi due mesi dopo: si ricomincia con lo stesso entusiasmo, come se ci si fosse lasciati il giorno prima ma con la differenza che ci si può raccontare tutte le storie successe nel mezzo, e si che di storie ne succedono sempre tante. Quindi benvenuti alla prima edizione berlinese di Bristol Sound. Ripartiamo da Berlino, che con Bristol ha parecchie cose in comune: tre consonanti e due vocali, l’atmosfera, la musica, la street art e la più alta concentrazione di gente fuori di testa per metro quadro, oltre a una generale idea di life style che tende più alla lentezza che alla frenesia tardocapitalista dettata dagli stereotipi inglesi o tedeschi, e che può essere riassunta efficacemente nel titolo di un articolo sulla musica berlinese che ho appena letto su Exberliner, mensile dedicato agli anglofoni di stazione nella capitale tedesca: “Think globally, act lethargically”. Inutile fare distinzioni di provenienza in un contesto in cui non esiste più una reale “local music”, alla ricerca di una plausibile definizione di Berlin Sound, scrive D. Strauss, autore dell’articolo. Non c’è al momento alcuna idea di Berlin Sound: i gruppi fighi berlinesi suonano la stessa musica di quelli di New York, di Londra, o di Calcutta. Anzi, insiste, forse un’idea di musica berlinese vera e propria non c’è mai stata. Nessuno dei musicisti presentati nel dossier, poche pagine dopo, viene da Berlino. Prendendo per buona questa ipotesi, allora, teniamoci stretto il titolo di questa rubrica, dato che invece un’idea di musica bristolese è ancora ben radicata nelle teste di molte persone. Prendiamola come occasione per attraversare la Manica come Bowie durante gli anni Settanta, e concedere un periodo berlinese anche alla nostra rubrica – tutti devono avere un periodo berlinese, in fondo – alla ricerca di suoni britannici che si spostano oltremanica. Perché se a Berlino ci si passa, a Bristol invece ci si torna sempre, una volta che ci si è stati: è facile essere berlinesi per un periodo, bristolesi lo si è per tutta la vita. E’ un concetto dell’anima più che spaziale: c’è un po’ di Bristol in tutti i posti in cui ci sono culture alternative e c’è tanta Bristol in ogni quartiere di Berlino, soprattutto a est. Forse Bristol è in realtà un quartiere di Berlino che è scivolato via dall’altra parte del canale, una colonia fondata da una tribù esule di berlinesi, oppure è Berlino che è il tutto intorno di Bristol spostato sul continente. Chiamatela pure, se proprio volete, nostalgia – Bristolgie? – io continuerò ad utilizzare l’etichetta Bristol Sound.
Sarà conseguenza di questo spirito a metà tra eterno ritorno e simmetria, o forse un ben riuscito welcoming da parte della mia nuova casa, che i primi due artisti che mi accolgono a Berlino siano anche due degli ultimi che ho visto a Bristol o a pochi chilometri da Bristol, in Galles, in occasione di quel Green Man Festival che, ennesima coincidenza, era stata anche l’ultima puntata della nostra rubrica. Un tempismo che è quasi un destino, e che mi permette di affondare subito il dito nella storica querelle tra i sostenitori dei festival e quelli dei concerti: fantastica esperienza quella del festival, come ho abbondantemente descritto in quel contesto, ma i concerti, gente, per godere a pieno l’ascolto di una band che amate bisogna andare ai loro concerti – posto che ovviamente la soluzione ottimale e riuscire a farli entrambi. Sempre riferendomi all’assunto che Bristol è un concetto mentale e non un luogo, invece che delle microrealtà locali vi parlerò di Gruff Rhys e Angel Olsen, provenienti rispettivamente dal Galles il primo e dal Missouri la seconda, il che significa che con l’Inghilterra non hanno a che spartire nemmeno l’accento del loro inglese. Il primo ha suonato a Bristol al Woodlands Church l’11 settembre, per poi esibirsi a Berlino nella parte più est dell’est, nel Gruener Salon in Rosa-Luxemburg-Platz, lunedì scorso. La seconda, dopo uno showcase pomeridiano al Friska/Rise, il caffee/record shop di cui abbiamo parlato qui nella prima puntata di questa rubrica, e successiva esibizione al Lantern, lo scorso giugno, per assecondare la sua nazionalità nelle posizioni della guerra fredda ha preferito il più neutrale Bi Nuu a Kreuzberg, a pochi centimetri dall’immaginario muro che separa questo quartiere da OstKreuz e Friedrichshan, lo scorso mercoledì.
Gruff Rhys, nome completo, in gallese, Gruffydd Maredudd Bowen Rhys, è un genio assoluto dei nostri tempi. Musicista, attore, regista, presentatore televisivo, performer a 360 gradi, principalmente noto come frontman dei Super Furry Animals, è piuttosto celebre anche per le sue uscite da solista, nelle vesti di songwriter, oltre che per le numerose apparizioni fatte in dischi e concerti di più artisti di quanto è possibile nominarne in queste righe. Negli ultimi anni porta in giro il suo ultimo progetto che è quasi una missione, American Interior, diventato in itinere un disco, un libro, un documentario, una app per smart phone, oltre che uno show – Rhys lo definisce “investigative concert” – a metà tra il cabaret, l’esibizione acustica e il racconto. Rhys non è nuovo ai concept album, né alla rivisitazione in musica di biografie di personaggi significativi – John Delorean in Neon Neon e Giangiacomo Feltrinelli in Praxis Makes Perfect, entrambi dischi realizzati in collaborazione con Boom Bip sotto il nome Neon Neon – e neppure al documentario di viaggio, già esplorato con Disperado!, viaggio in Patagonia alla ricerca di un suo zio musicista. E’ la prima tuttavia volta che combina tutti questi formati sotto un unico progetto, e con questo approccio multiforme, ci sottopone la ricostruzione del viaggio di John Evans, giovane esploratore gallese partito da Londra nel 1792 per battere una buona porzione di Stati Uniti alla ricerca delle tracce di una tribù di nativi americani di lingua gallese, che secondo le cronache sarebbe stata fondata da un suo antenato, il principe Madog, giunto nel nuovo mondo diversi secoli prima del nostro Cristoforo Colombo. La missione di Evans è rimasta senza successo, morto a 24 anni e prima di trovare tracce di questa tribù. Evidente invece è il successo dell’operazione di Rhys, che ha scritto i suoi pezzi esibendosi nelle località dell’itinerario da Evans, arrangiandoli e registrandoli tappa dopo tappa, coinvolgendo nelle sue ricerche i conterranei incontrati nel cammino. Alternando nel suo bizzarro inglese continue gags, buffi fotomontaggi e pagine di storia e revisionismo alle ballate e alle invenzioni sonore dell’intenso disco American Interior, l’estroso cantautore tiene la scena in modo impeccabile completamente da solo per oltre un’ottantina di minuti: l’esperienza del concerto di Rhys è uno spettacolo unico e che rivive ogni volta diverso sul palco, e non vi capiterà mai più di ridere così tanto ad un concerto, se non davanti al suo prossimo progetto. Certo, a restituire magia alla performance di Rhys è stato merito anche della splendida venue, il Gruenter Salon, che ha conservato l’arredo in stile twenties al riparo dalle pacchianerie dei locali per turisti alla ricerca di arredi sovietici, Sputnik e colbacchi della RDT: lampadari-candelabri di vetro con lampadine dai colori opachi, poltrone e tende di velluto, un bancone del bar vintage che aspetta da un momento all’altro l’arrivo di Zelda Fitzgerald e che invoca avventori in giacchetta da sera. Un ambiente più adatto forse al sinuoso blues rock di Jolie Holland, songwriter texana che ha tenuto il palco per la prima metà del concerto, ma il pubblico era indubbiamente tutto lì per Rhys, e pure visibilmente annoiato dalla impeccabile, ma forse troppo lunga, performance di Holland. Che cosa avessero in comune i due ospiti della serata, a parte vaghe sovrapposizioni di sonorità folk, bisognerebbe chiederlo ai promoter berlinesi, che probabilmente hanno gli stessi pusher di quelli bristolesi.
A differenza di Rhys, quella di Angel Olsen, più che una conferma, dovrebbe essere una sorpresa, ma per l’incredibile numero di concerti tenuti a supporto del secondo disco, Burn your fire for no witness, il nome di Olsen suona come fosse già diventata una vecchia conoscenza. Di mestiere, inoltre, questa ragazza del Missouri sembra averne già tanto. L’incontro nell’affollatissimo Friska e l’esibizione incazzatissima al Green Man mi avevano reso vidente il caratterino per niente facile di Olsen, che al Bi Nuu invece stupisce perché nei generosi 90 minuti di suono si rivela una autentica delizia. Il locale, che occupa il sottoscala della stazione di Schlesisches Tor della U-Bahn, è decisamente più glam nell’arredo rispetto al Gruener Salon, meno velluto e più glitter, certamente più spazioso e adatto alla capienza del pubblico accorso in quantità molto maggiore. Più che una musicista, una apparizione, Olsen si presenta sul palco coi suoi tre strumentisti quasi senza emettere rumore. Carismatica quando canta, buffa quando cerca di intrattenere il pubblico, la ragazza ha carattere e lo annuncia subito dopo il primo pezzo, quando chiede a fonico: “Dick, come andiamo? Va bene se abbasso un po’ l’amplificatore sul palco e mi alzi la chitarra da lì? Beh, io lo abbasso comunque”, o al promoter, in chiusura: “Quanti minuti abbiamo, ce la faccio a farne un’altra? Addirittura due? Beh, io ne faccio una.” E poi, ovviamente, alla fine della prima ride, e senza neanche prendersi gli applausi attacca la seconda. Durante l’esibizione Angel si scioglie poco a poco e acquisisce una spontaneità ciarliera e quasi infantile, tira fuori senza filtro e senza divismi tutto quello che le passa per la testa come fosse tranquillamente seduta con gli amici davanti a un caffè: “Siamo in tour insieme da febbraio. Non è facile passare quasi un anno nel Van, c’è da diventare pazzi!” Lo splendido Burn your fire for no witness è un grande successo di pubblico e di critica, oltre che uno dei miei dischi dell’anno, alterna ballate intensissime nello stile del primo disco a pezzi più energici e ruvidi. Ci si aspetta una performance stanca, dopo tutto questo girovagare, invece il suo entusiasmo è incontenibile: “Ma non avete niente di meglio da fare che venire qui ogni volta? Dio, uscite, andate a farvi un giro!”, prosegue. Ad aprire il concerto una densissima performance di Rodrigo Amarante, che Olsen richiama sul palco entusiasta per un duetto, una cover di I’m a stranger here dei Lambchop che sembra divertirla tantissimo. Il resto della scaletta alterna titoli da entrambi i dischi, una quindicina di pezzi che comprende tutte le canzoni che dovevano esserci: Acrobat, Lights Out, High and Wild, Unfucktheworld, Hi-five, Forgiven/Forgotten, Iota. Gli ultimi due brani li esegue da sola, dopo aver congedato Amarante e il resto della band e chiesto al pubblico quale vuole sentire: “White Fire? Oddio, sarà dura, sono troppo di buon umore”. L’arpeggio gira a vuoto per qualche minuto, prima che riesca a intonare la prima strofa, ogni volta che dà fiato alla voce scoppia a ridere. E il pubblico insieme a lei. Alla fine del secondo sorride, ringrazia, abbassa la testa, e silenziosa come è entrata, va via, pronta a rimettersi in marcia per la prossima tappa, senza soste.
Nuovo giro, nuovi amici: le foto ad Angel Olsen sono opera di Valerio Ciucci, Berliner d’adozione. Potete trovarne altre, di Olsen e di altri musicisti, al blog a cui collabora: http://itsonlymusicbutlive.com.