E così venne la primavera, e mentre Febbraio sfumava via, le giornate di Marzo cominciavano a regalarci più ore di luce, e perdevamo per strada alcuni dischi a cui valeva la pena dare un ascolto. Questa rassegna di album [in ordine di uscita], usciti a cavallo tra la fine di Febbraio e per tutto il mese di Marzo, ci aiuta a tenere il passo della frenesia musicale di questi anni.
In questo numero, tra le altre cose: il ritorno dei Magnetic Fields, il cantautorato folk di Laura Marling, l’esordio brillante di Kelly Lee Owens, il rap di Drake, il nuovo album del nostro affezionato Nobel Bob Dylan, e l’anteprima del disco hip hop di Joey Badass. Con una domanda che inizia a diventare martellante: dov’è finita la musica elettronica? Intanto mettiamo l’acceleratore e andiamo a tutto gas. E ricordatevi: non fidatevi solo delle nostre orecchie, provate anche voi.
TIM DARCY – SATURDAY NIGHT
songwriting
Che bello questo dischetto di Tim Darcy, non possiamo risparmiarci un consiglio di ascolto. Si tratta dell’esordio solista del frontman degli Ought, band a cui siamo legati da un’ipotetica linea sentimentale che segue le scie moderne del punk. E poi i riferimenti di Darcy ci piacciono, Lou Reed aleggia per tutto il disco come un vecchio fantasma, sin dalla primissima traccia Tall Grass of Water (e che direste se dentro ci ritrovaste una scarica di bel sound alla Velvet Underground a sorpresa?). Come recita la copertina, anche se oggi il punk si è seduto su una sedia composto insieme a un mazzo di fiori ad abbellire la scena, è sempre bello sporcarsi le mani con le distorsioni e i suoni sporchi, frammenti immaginari di epoche che ormai hanno un sapore antico. Ma non vi aspettate un disco punk, a tratti Darcy gioca addirittura a fare il crooner: Joan Pt 1,2 sembra una canzone venuta fuori dagli anni d’oro dei Sessanta, quando si cercavano le direzioni del rock, Still Waking Up (che fa il verso anche a Morrissey) è una vecchia dolce ballata con cui svegliarsi al mattino insieme a qualcuno nel vostro letto. E ancora le atmosfere indiane evocate dalle chitarre in First Final Day, la passeggiata a Saint Germain ossessionata da sonorità alla John Cale, il pianoforte di What’d you Release?, e una hidden track (Joan Pt 3) veramente nascosta e misteriosa: l’effetto di Saturday Night è quello che ci vuole per inaugurare la primavera, le sue lunghe giornate, e l’esplosione della natura. GRAFFIANTE / Giovanna Taverni
ESSENTIAL TRACK: Still Waking Up
PETER SILBERMAN – IMPERMANENCE
songwriting
“Did I listen to the music because I was miserable? Or was I miserable because I listened to the music?” si chiedeva Rob Gordon in Alta Fedeltà. Non credo che qualcuno sia mai stato in grado di rispondere. Di certo la musica, a volte, riesce a renderci più malinconici. Con Impermanence, Peter Silberman (The Antlers) ci trasporta in una dimensione in cui, di malinconia, sembrano essere permeate tutte le cose. Un incidente di percorso, l’udito che se ne va parzialmente, i rumori di una città (New York) che diventano improvvisamente insostenibili. Sono questi gli ingredienti con cui Silberman ha costruito il suo primo lavoro solista, facendo del suo esilio forzato l’incubatrice ideale per svilupparlo. Delicatamente, come se dovesse ri-imparare ad ascoltare. Appena sei brani per un totale di 36 minuti in cui lunghissime pause e arpeggi accennati si alternano a una voce ipnotica e cristallina che ha echi di Elliott Smith ma ricorda moltissimo Jeff Buckley. Un disco minimal dal sapore vintage (merito anche delle registrazioni su nastro) che ci fa sentire come quando, dopo un lungo viaggio, si ritorna a casa. SUSSURRATO / Veronica Ganassi
ESSENTIAL TRACK: New York
THE MAGNETIC FIELDS – 50 SONG MEMOIR
songwriting
Sono di parte. Credo nella poesia e nella musica di Stephin Merritt, e temo sia parecchio sottovalutata. Per festeggiare con noi i suoi 50 anni Merritt non organizza un grande party fitzgeraldiano, ma ci regala un album di 50 canzoni, al ritmo di una canzone per ogni anno di vita del cantautore americano. Gliene siamo grati, preferiamo questi suoni che accarezzano le orecchie a primavera a ogni ipotetico scenario barocco alla Grande Gatsby. Dopo averci regalato 69 Love Songs, un triplo album che raccontava quella vecchia faccenda che è l’amore, oggi Merritt e i suoi Magnetic Fields tornano a flirtare con l’idea di un disco a più dimensioni (qui arriviamo a quella del quintuplo) e danno alle stampe 50 Song Memoir, un memoriale che racconta l’ultimo mezzo secolo (c’è addirittura spazio per cantare la morte di Judy Garland nel ’69). Ci si può annoiare con 50 canzoni? Merritt prova piuttosto a divertirci: How to Play the Synthesizer usa i sintetizzatori, e così ricadiamo in quegli anni Ottanta in cui venne fuori quella tendenza a sintetizzare i suoni. Ma poi torniamo a casa, a cullare i nostri sogni e gli anni Settanta, I Think I’ll Make Another World: faremo un altro mondo e danzeremo su questo mondo, che importa se nessuno lo capirà. Merritt è ancora il cantore dei sentimenti umani, e con una voce così come non potrebbe: Big Enough for Both of Us è una meravigliosa ballata d’amore, Have you seen it in the snow? una ballata d’amore alla città – hai visto quant’è bella la città con la neve?, Be True to your Bar l’estrema invocazione di chi si siede spesso al bar a scrivere poesie e canzoni. E così ci culliamo nelle immagini che questo disco evoca, l’impossibilità di tornare a New York e trovarla uguale perché cambia continuamente, i vestiti di Merritt che gli ricordano una vecchia amante, e il dissapore di Why I am not a Teenager. UNA CULLA / Giovanna Taverni
ESSENTIAL TRACK: a scelta
THE SHINS – HEARTWORMS
indie pop
Gli Shins sono stati tra i primi gruppi indie ad atterrare nel mondo delle serie tv quando l’hype non era ancora quello di oggi, ma chiudere una puntata di Scrubs significava comunque arrivare alle orecchie di un vasto pubblico. Sarà anche per questo motivo che le prime note di New Slang continuano a portarci indietro nel passato, a giorni che non siamo in grado e che non vogliamo cancellare. Dopo cinque anni da Port of Morrow, la band di James Mercer è tornata sulle scene con un nuovo album che lega le atmosfere dell’adolescenza contenute in Oh, Inverted World alle sonorità ben impastate di Wincing The Night Away che è arrivato insieme alla maturità. Gli Shins hanno ancora oggi la capacità di creare musica cinematografica, basti ascoltare Fantasy Island o So Now What (non a caso inserita nella colonna sonora di Wish I Was Here di Zach Braff), e non si tirano indietro neppure quando i confini da esplorare sono quelli dell’acid-rock di Painting a Hole o del pop energico di Name For You e di Half a Million. A concludere la raccolta è l’eleganza di The Fear, più che un commiato, la firma del frontman degli Shins, che negli anni ha saputo svelarsi lentamente togliendosi di dosso, vestito dopo vestito, le proprie insicurezze. ELEGANTE / Ilaria Del Boca
ESSENTIAL TRACK: The Fear
LAURA MARLING – SEMPER FEMINA
folk songwriting
“Varia e mutevole cosa è sempre la donna“. Queste parole sono proferite nell’Eneide da Mercurio che compare in sogno a Enea per esortarlo a stare in guardia da Didone, ridotta a essere paragonata a una cosa, nonostante sia la regina di Cartagine, ma prima di tutto un essere umano. Da questo passo prende vita Semper Femina, un disco di grande forza e intensità che Laura Marling ha il coraggio di realizzare dopo Short Movie, un album uscito due anni fa, ma che oggi ci appare distante sia per gli intenti sia per le influenze sonore. Dopo sei dischi, la cantautrice britannica è diventata grande e, sebbene fin dagli esordi abbia dato prova di un notevole spessore compositivo, Semper Femina è l’indagine più lucida e matura del proprio percorso. Sono le sfaccettature acustiche e la ricerca per i particolari che troviamo per esempio in Wild Fire, Don’t Pass Me By o in Always This Way a farci capire l’importanza delle frasi che emergono dal canto di Laura Marling. La consapevolezza di una voce capace e incisiva è il più bel regalo che una donna possa fare alle altre donne. Non possiamo che rabbrividire constatando tale bravura. CONSAPEVOLE / Ilaria Del Boca
ESSENTIAL TRACK: Wild Fire
REAL ESTATE – IN MIND
jangle / dream pop
In Mind è il disco delle temperature miti e crescenti, dei fiori che sbocciano, delle giacche di pelle e delle allergie. I rumori graffianti del mondo e le tensioni quotidiane rimangono fuori dalle morbide atmosfere che definiscono il tratto distintivo dei Real Estate. Del resto i successi di Days e di Atlas ci avevano già abituato a una composizione di emozioni paragonabile a un lavoro a maglia dalle trame strette e ordinate. Gli undici brani che costituiscono la raccolta oscillano tra percezioni visive differenti. Non ci sono soltanto carezze tra i capelli come nel caso delle nostalgiche Darling, Serve the Song e After the Moon, ma anche fulmini che squarciano il cielo all’improvviso come Stained Glass, Two Arrows e Saturday, sicuramente le tracce più interessanti dell’album. Le melodie dream-pop si sposano perfettamente con il folk di Bob Dylan e di Peter, Paul and Mary e con il rock psichedelico che fu degli Yardbirds e dei Cream. Le influenze non mancano a In Mind, che è un disco sintetico ed efficace, realizzato con un linguaggio facile da comprendere, ma dietro il quale si nascondono galassie infinite ancora tutte da esplorare. Il potenziale non manca. PRIMAVERILE / Ilaria Del Boca
ESSENTIAL TRACK: Darling
SPOON – HOT THOUGHTS
indie rock
E poi, per fortuna, nel panorama delle mille band indie rock contemporanee, delle uscite in diretta che si fa una certa fatica a seguire, di tutti quelli che si buttano nella mischia dal mattino alla sera, vecchi orfani di MySpace riciclati su Bandcamp, per fortuna – dicevamo – ci sono gli Spoon. Dei texani avevamo già apprezzato l’ultimo lavoro, They Want My Soul, una carica di freschezza che era riuscita a darci un certo ritmo. Hot Thoughts è come promette di essere: caldo, e fresco allo stesso tempo. E sarebbe limitato accontonarlo come un album indie rock, viste le mille incursioni dance e funk. Alzati dalla sedia, metti in play First Caress, dai luce alle chitarre, lasciati travolgere dai ritmi caldi di Can I Sit Next to you, o dalla title-track danzereccia. È un album allegro, in alcuni episodi “talkingheadsiano” (Shotgun), che fa piacere sentire in questa stagione. Il talento degli Spoon è salvo. CLASSE / Giovanna Taverni
ESSENTIAL TRACK: Can I Sit Next to You
DRAKE – MORE LIFE
rap
Dopo aver infranto tutti i record digitali e non con il suo Views l’anno scorso, torna Drake con un album che non è un album, ma, come sottolineato più volte dall’artista canadese, una playlist. More Life in realtà appare ad un livello superficiale come un classico lp, ma effettivamente ad un ascolto ed uno sguardo più approfondito si capisce cosa intenda Drake insistendo nella direzione opposta. A partire dalla lunghezza del lavoro, ben un’ora e venti minuti, è ovvio come la raccolta di canzoni (di questo si tratta in fin dei conti) non sia affatto concepita per essere ascoltata tutta in una volta ma per essere distribuita e spalmata a nostro piacimento nei vari momenti delle nostre giornate. Inoltre c’è il discorso dei featuring e delle produzioni, tutte molto variegate, dal grime alla dancehall passando per l’R&B arrivando all’afrobeat. Come ha sempre fatto Drake si è circondato di tantissimi collaboratori a cui ha concesso mano libero in diverse occasioni, addirittura concedendo loro un intero pezzo senza neanche il suo più piccolo intervento (vedi Sampha e Skepta). In generale l’album/playlist ha inoltre un sapore decisamene british, ospitando artisti come il già citato Skepta, Giggs, Black Coffee e la cantante inglese Jorja Smith, ma abbiamo anche i big della scena americana con Quavo, Travis Scott, 2Chainz, Kanye West e PartyNextDoor. In generale il lavoro si lascia ascoltare in modo piacevole, tenendo a mente il discorso fatto sopra circa la lunghezza e la non pretesa di ascoltarlo tutto d’un fiato. Non mancano i pezzi più deboli ed insignificanti che però vengono bilanciati da altri di pregevole fattura, ad esempio Glow con Kanye o Portlandcon Quavo e Travis Scott. Un lavoro che sembra anche inteso come un ponte fra l’enorme successo commerciale del suo predecessore ed un progetto futuro. Drake può non piacere e non convincere sempre, ma gli va dato il merito di non aver praticamente mai toppato una mossa, sapendosi sempre rinnovare e circondare dei giusti collaboratori, cosa che appare evidente anche in questo caso. ETEROGENEO / Giulio Pecci
ESSENTIAL TRACK: 4422 (feat. Sampha)
KELLY LEE OWENS – KELLY LEE OWENS
dream pop / techno ambient
Scoperta, letteralmente scovata, da Daniel Avery mentre lavorava come commessa in un negozio di dischi, Kelly Lee Owens esordisce con l’omonimo album di debutto, quel tipo di lavoro che rapisce ed imprigiona fin dal primo ascolto. Dieci tracce sapientemente texturizzate, dall’invitante retrogusto lisergico, in grado di fondere insieme techno minimal, dream pop, qualche elemento krautrock e di drone ambient, in un’alchimia capace di sfuggire piacevolmente a facili categorizzazioni. Il risultato, al contrario di quanto si potrebbe temere, è tutt’altro che disorientante: l’eterea voce della musicista gallese, in alcuni momenti semplice componente ritmica, in altri vero strumento aggiunto, è il filo di Arianna che non fa smarrire la via all’interno del labirinto in cui conduce. Quasi non fosse sufficiente, in Anxi. la collaborazione con Jenny Hval è l’ingrediente finale che sublima il tutto. Kelly Lee Owens è un disco d’esordio che riunisce gli opposti: emotivo e bilanciato, bambino e maturo, barocco e lineare sono concetti armonizzati con estrema naturalezza. Un ossimoro talmente riuscito da non poter attribuire il merito ad altro se non ad un innato talento, di certo il primo capitolo di una fulgida carriera. ALBA RADIOSA / Matteo Dalla Pietra
ESSENTIAL TRACK: Anxi. (feat. Jenny Hval)
BOB DYLAN – TRIPLICATE
american standard
Il primo triplo album in carriera per il cantautore americano, fresco Premio Nobel per la Letteratura, sarebbe in realtà potuto stare tranquillamente in due dischi ma i trentadue minuti di durata di ciascun disco avevano importanti rimandi numerologici come ha spiegato lo stesso Dylan nell’intervista che ha accompagnato l’uscita dell’album. Kabbalah a parte, Triplicate è un’immersione, in poco meno di cento minuti e trenta canzoni, negli standard della grande tradizione americana. Continuando l’esplorazione iniziata due anni fa con Shadows in the Night, omaggio a Frank Sinatra con cui condivide gli occhi azzurri e provenienze celestiali (l’intervista di cui sopra), Bob Dylan si cimenta ancora con il grande canzoniere americano tra classici senza tempo (Stardust, Stormy Weather) e gemme nascoste. Come negli ultimi lavori, con una produzione eccellente e registrazioni dal vivo, tra pedal steel e atmosfere retrò cui si aggiungono, per l’occasione, sporadici e mai invasivi interventi dei fiati, è la voce di Dylan a guidare le danze. Morbida, suadente, vellutata ma anche capace di graffiare, la voce di Dylan sembra aver trovato il suo abito per questa nuova/antica stagione della sua personale storia. Ancora una volta altrove rispetto alle aspettative, Dylan sembra cercare di dirci qualcosa che non riusciamo ad afferrare. «All I can do is be me, whoever that is». MALINCONICO / Fabio Mastroserio
ESSENTIAL TRACK: a scelta
WIRE – SILVER / LEAD
post-punk
Nel 2014, a 60 anni, Colin Newman si trasferisce a Brighton: Londra è cambiata, è un periodo strano, e non si sa quali saranno gli effetti della Brexit – ha confidato a Pitchfork recentemente, poco prima dell’uscita del nuovo album dei Wire. E così la storica band che – dalla capitale inglese – fu complice degli albori del post-punk con quel Pink Flag che quest’anno compie 40 anni, ci narra ora la fuga dalla grande metropoli, e lo fa con le stesse atmosfere scure e spezzate degli anni d’oro. Pezzi come Forever & a day e Sonic Lens con un colpo di classe sonoro spezzano la contemporaneità in cui siamo compromessi, e allora torniamo sul finire degli anni Settanta inglesi, mentre dall’America la new wave scuoteva un continente intero, e la vecchia Inghilterra entrava nella sua fase più oscura – una battaglia a colpi di chitarre che non ha mai vinto nessuno. Che Brio sia un pezzo così dark è sintomatico di quanto ancora scorra un sentimento decadente nelle nostre vene, persino oggi, mentre raccogliamo a terra cartoline del 2017 dall’altro mondo. POST-DECADENTE / Giovanna Taverni
ESSENTIAL TRACK: Brio
ANTEPRIMA
JOEY BADASS – ALL-AMERIKKKAN BADA$$
hip hop
Sin dal momento in cui è stato annunciato nessuno ha mai avuto dubbi su All AmeriKKKan Badass, perché diciamolo, nulla lasciava all’immaginazione. Quelle tre K in maiuscolo (già utilizzate da Ice Cube nel 1990), il primo singolo Land of the Free: tutto così conscious, tutto così political. Non fraintendetemi, Land of the Free è un pezzo emozionante e pieno di spunti di riflessione, ma converrete con me nel constatare che ha un mordente certamente inferiore rispetto a un Kendrick Lamar scatenato che insabbia Big Sean a colpi di “lil’ bitch” e spara banconote su un tavolino ricoperto di Dead Presidents, come direbbe Rakim. In ogni caso, lasciarsi condizionare è sempre un errore, e All AmeriKKKan Badass ne è l’ennesima prova: la musica va giudicata in quanto tale e non va mai confusa con la confezione. Nonostante, infatti, potesse essere impacchettato con più cura, quello di Joey Badass è un disco mozzafiato, un concept album che ruota tutto attorno, ma proprio tutto attorno all’America: prima la personifica, poi la allegorizza, dopo ancora ne fa uno scenario, ma è sempre lei, la terra a stelle e strisce raccontata da un giovane uomo di colore che la vive e la conosce appieno. La capacità espressiva del nativo di Brooklyn è sensazionale, spesso e volentieri in grado di rendere l’ascoltatore emotivamente partecipe; insomma, mi ha fatto emozionare di continuo, e non solo grazie alla propria abilità da rapper, ma anche all’estrema cura della produzione esecutiva, che segue un filo logico composto da trombe, corni, ma anche strumenti a corde dall’impronta chiaramente afro-americana. Anche la scelta dei feat si rivela abbastanza azzeccata, ma nonostante ciò, a esclusione di Schoolboy Q, nessuno degli ospiti dà la sensazione di aggiungere davvero qualcosa alla traccia, ma anzi di limitarsi al compitino, laddove magari serviva qualche rima per alzare il livello del pezzo (come in Ring the Alarm, unica canzone sotto-tono nel disco a mio parere). Badmon ci regala un sophomore più che meritevole, e tra le lacrime della bimba di Temptation, la lettera diretta a Miss Amerikkka in Y U Don’t Love Me?, e l’irrefrenabile frustrazione che domina Babylon, ci ricorda che il razzismo in America è ancora vivo e vegeto, e che gli Afro-americani hanno ancora il cognome dei loro antichi proprietari. GIUSEPPE MANCINO