a cura di Alessia Ragno
In uno dei primi incontri pubblici per presentare Brevemente risplendiamo sulla terra, il suo romanzo d’esordio (in Italia edito da La nave di Teseo, traduzione di Claudia Durastanti), Ocean Vuong entra nella stanza, siamo nello Strand Book Store di New York, e prima ancora di presentarsi al pubblico accende una candela votiva con l’effige dello scrittore James Baldwin. È il modo teatrale che sceglie per dichiarargli la sua devozione e celebrarlo come personale santo protettore, ispiratore della sua scrittura. Cita “Gridalo forte” e l’eccezionale similitudine tra la Harlem degli anni ‘30 in cui John Grimes, alter ego di Baldwin, vive e Hartford, Connecticut, la città in cui Vuong stesso e Little Dog, il suo personaggio, giungono dal Vietnam. Quello di Vuong è un romanzo di formazione in forma epistolare, un’opera capace di accendere una nuova luce sulla letteratura americana contemporanea. Ocean Vuong, infatti, plasma a sua immagine e somiglianza il genere memoir: quella che potrebbe essere una autobiografia per i ricorrenti elementi in comune tra la storia di Little Dog e l’autore, prende poi strade alternative e diventa pura arte, come lo stesso autore racconta in una delle sue interviste più pop durante il talk show Late Night with Seth Meyers. Complice di questo nuovo modo di scrivere memoir innanzitutto la prosa poetica figlia del precedente esordio di Vuong, la raccolta di poesie Cielo notturno con fori d’uscita (La nave di Teseo), che gli è valso il T.S. Eliot Prize nel 2018. E poi, in secondo luogo, il racconto moderno della ricerca della propria identità in quanto americano, ma anche immigrato vietnamita nonché membro della comunità queer. Brevemente risplendiamo sulla terra è una lezione di contemporaneità e inclusione, col mezzo letterario, in un tempo in cui la diversità è ancora territorio di battaglie feroci.
La voce narrante del romanzo è Little Dog che, da adulto, scrive lettere alla madre a cui è legato da un rapporto simbiotico. Una madre che ha la guerra dentro, quella da cui è scappata per approdare poi negli Stati Uniti con un figlio di due anni; è praticamente analfabeta, non comprende l’inglese e non sa scrivere in lingua vietnamita, e vede il mondo attraverso suo figlio, unico interprete della realtà che la circonda. Lo ama profondamente: per calmarlo, anche quando è grande e lontano, gli canta “Buon compleanno” al telefono perché è l’unica canzone che sa in inglese, e lui per sentirla meglio preme forte la cornetta sulla guancia. Da ragazzino, per farlo crescere più solido e sicuro, gli fa bere bicchieri di latte americano e il piccolo Little Dog pensa:
Sto bevendo luce, pensavo. Mi sto riempiendo di luce. Il latte avrebbe cancellato tutto il buio dentro di me con una inondazione luminosa.
A queste attenzioni, alle quali attribuisce una valenza miracolosa, la madre alterna momenti di violenza: lo picchia, gli intima di imparare a difendersi da solo perché lei non ha i mezzi linguistici per aiutarlo e gli dice, infine: «Ricordati […] non attirare l’attenzione degli altri su di te. Già sei vietnamita». Questa è la verità delle minoranze negli Stati Uniti contemporanei, in cui l’istinto di sopravvivenza porta a nascondersi per non smuovere ulteriormente quelle acque rese già torbide da una diversità che spaventa. Ma nonostante questo il sogno americano della madre di Little Dog è granitico e ha connotazioni quasi mistiche. Un semplice abito bianco trovato in sconto da Goodwill, al pari del latte americano dato al figlio, le sembra l’unica via che ha per conquistare il suo posto negli Stati Uniti. «Sembro una vera americana?» chiede a Little Dog con l’abito indosso, ma la verità è che niente riuscirà a farla integrare, nemmeno questo elegante trofeo a prezzo scontato, e il trauma della guerra in lei non accenna mai a spegnersi. Quello della madre di Little Dog e dell’altra donna della sua vita, la nonna Lan, è un sogno americano infranto sul nascere dall’istinto di sopravvivenza. Sono donne che creano un codice morale tutto personale nella speranza di proteggere loro stesse e il ragazzo dalle insidie della grande America. Un sogno americano, il loro, non lontano da quello raccontato da Baldwin, ma che attinge a piene mani anche dagli “ultimi” di John Steinbeck in Furore, storia di miseria, immigrazione e della crudeltà dell’American Dream. L’idea stessa dell’agognata terra promessa si scontra con una realtà violenta in cui si può recuperare la propria dignità solo a patto di essere invisibili e maltrattati. Per la madre il sogno si ferma al pane bianco e agli enormi barattoli di maionese, che confonde con burro, a Saigon prelibato cibo per ricchi.
Ricordo di aver pensato che quello era il sogno americano mentre la neve scoppiettava contro la finestra e scendeva la notte, e noi calavamo a dormire, uno accanto all’altro, le membra incastrate intanto che le sirene gemevano nelle strade, le pance piene di pane e “burro”.
Little Dog non è il protagonista assoluto del romanzo, né un eroe alla Tom Joad, ma con lui condividono la scena madre e nonna, donne fondamentali per la sua crescita, pur con il trauma, la sofferenza, la violenza e le bizzarrie. Quella di Vuong è, allora, la restituzione della dignità letteraria a personaggi le cui storie, che lui stesso ha vissuto in prima persona, meritano di essere raccontate perché sono letteratura a tutti gli effetti. Si può dire, allora, che Brevemente splendiamo sulla terra fa parte a pieno titolo della nuova narrazione dei fenomeni migratori nell’America contemporanea. È l’altra faccia dell’immigrazione già raccontata in altro ambito, per esempio, da Valeria Luiselli e il suo Archivio dei bambini perduti, e che talvolta fa anche passi falsi, come nel caso del recente Il sale della terra di Jeanine Cummins, in America inondato dalle critiche della comunità Latinx per le lacune in termini autenticità e rappresentazione.
Può sembrare ironica la scelta di mettere in forma letteraria l’immigrazione e la ricerca dell’io usando lettere indirizzate a qualcuno che non potrà mai leggerle, ma questa decisione non solo preserva il messaggio finale del romanzo, ma pone l’attenzione anche sul linguaggio. Brevemente risplendiamo sulla terra, allora, diventa anche un romanzo sulla sperimentazione linguistica di prosa e parole, queste ultime mezzo designato per tracciare una connessione eterna tra un figlio e sua madre. La prosa intensamente poetica, già ampiamente sperimentata nella precedente raccolta di poesie, è il leitmotiv dell’intero romanzo e della sua linea temporale mai progressiva. Vuong scrive della vita abbellendola in maniera struggente, inseguendo immagini e metafore, come quella delle fragili farfalle monarca e dei loro viaggi, simbolo di tutti i fenomeni migratori. Progredendo nella narrazione, l’autore elabora una scrittura che diventa sempre più concettuale, arte per l’appunto, che eleva il trauma personale a poesia. Little Dog, figlio della guerra come sua madre, dice di sé:
Non so cosa sto dicendo. Penso di voler dire che a volte non so cosa o chi siamo. Ci sono giorni in cui mi sento un essere umano, mentre altre volte mi sento più come un suono. Tocco il mondo non a partire da me stesso, ma dall’eco di quel che un tempo sono stato. Riesci già a sentirmi? Riesci a leggermi?
Little Dog suono, Little Dog bambino che si nasconde, ma anche Little Dog adolescente che sperimenta l’amore al di fuori del rapporto con sua madre. La descrizione del desiderio, dell’amore e del sesso con Trevor, un coetaneo americano che lavora nella stessa piantagione di tabacco, sono l’inizio della sua ricerca dell’identità personale. La scelta rivoluzionaria, che porta a compimento il sogno americano di Little Dog, è quello di regalargli libertà e consapevolezza inedite, in forte contrasto col senso di colpa che Trevor prova per le stesse pulsioni. La mascolinità tossica, l’omofobia interiorizzata, la difficoltà di accettarsi, altri temi centrali della ricerca personale dell’autore, sono tutte caratteristiche che Vuong attribuisce all’americano libero solo “in potenza”. La letteratura di Ocean Vuong conferisce, allora, agli ultimi e invisibili, il potere di scegliere il proprio destino in un romanzo sull’immigrazione, l’identità e la “queerness” completamente inclusivo. Little Dog non scompare, come gli chiedeva sua madre, ma si mostra al mondo attraverso la sua arte e le sue lettere, sopravvivendo anche grazie a donne tanto fragilizzate quanto determinanti per la sua libertà d’espressione. Trevor, invece, si sbriciolerà sotto il peso di paura, vergogna e aspettative altrui, le stesse che affliggono la società americana contemporanea. Il racconto in prima persona, banale espediente narrativo sotto uno sguardo superficiale, serve a raccontare con più forza la formazione di un individuo attraverso la sua visione del mondo. È così che le parole scelte accuratamente, e le specificità della sua storia raccontata, diventano comunque un veicolo universale per il suo messaggio. Little Dog e la sua famiglia, così come Vuong stesso, sono protagonisti di una storia corale che racconta come si diventa veri americani nonostante la guerra, l’abbandono della terra natia, la paura e il dolore. E diventano così, finalmente liberi e visibili perché sono le parole a narrare le loro storie.
E proprio come una parola, non ho alcun peso in questo mondo eppure porto con me e in me la mia stessa vita.