Intervista Brenda Navarro | Con la cenere in bocca dal Messico alla Spagna

– Le persone che si muovono nel mondo nonostante gli ostacoli fioriscono e mettono radici ovunque vadano. La protagonista dice: “Io vengo da dove vivo” e non c’è verità più grande.

Cenere in bocca è il secondo romanzo di Brenda Navarro – sociologa, economista, attivista e scrittrice messicana che ha esordito con Case Vuote nel 2019. La Nuova Frontiera la riporta in Italia con il suo secondo libro (traduzione di Gina Maneri). La storia di Cenere in bocca è quella di un viaggio tra due mondi, il Messico e la Spagna, che sono anche l’America latina e l’Europa in cui si muovono varie esistenze legate da diversi dolori. Le donne, accomunate dalla violenza subita, percepita e a cui ognuna reagisce mettendo in atto azioni diverse. Il rapporto con la madre che attraverso le pagine muta in piccolissimi segnali. Poi c’è Diego, il fratello della protagonista che si suicida. Con questa morte si apre il libro che è segnato, sopra ogni cosa da questo filo rosso, che poi è l’unico destino che accomuna tutti, migranti, occidentali, persone ricche e povere. Con Cenere in bocca Brenda Navarro ci trascina nel suo fiume di parole che scorrono libere e impetuose tra le pagine accompagnate dalla musica dei Vampire Weekend tramite la quale l’autrice riesce a ricostruire, per contrasto, un sapore dolceamaro che poi è lo stesso delle esistenze dei suoi personaggi.

In occasione della fiera della piccola e media editoria di Roma Più Libri Più Liberi 2023 abbiamo avuto occasione di intervistare l’autrice che ci ha permesso di entrare in profondità nel mondo che si cela dietro le pagine del suo ultimo libro.

(Si ringrazia Gianluca Cataldo per la traduzione)

Io però credo che l’hanno violentata e la poverina pensa di doversi portare quello peso da sola. Io le vorrei dire, parlami, racconta, non c’è niente di male a parlare, ti ascolto.

Cenere in bocca, prima di tutto il resto, racconta della violenza sulle donne e dei retaggi patriarcali facendo percepire l’accettazione di queste dinamiche come dati di fatto. La madre della voce narrante invece lascia intravedere che una reazione è possibile. Anche se il libro copre varie generazioni di donne questo tema è ancora tremendamente attuale, e forse è proprio il tema della violenza a legare tutte le donne di questo romanzo?

Mi piace pensare che il mio lavoro come scrittrice sia osservare le conseguenze dei grandi eventi in relazione con il mondo delle donne. Quegli spazi dove sembra che solo reagiamo quando in realtà agiamo anche, sebbene in modo diverso, perché noi donne, sistematicamente violate, non abbiamo mai scelto il mondo della vendetta ma quello della comprensione. Capiamo il mondo perché lo conosciamo nella sua totalità, e questo sguardo critico su ogni aspetto della vita appartiene solo alle donne che hanno dovuto ricomporre ciò che resta quando qualcosa va storto.

I personaggi di questo libro sembrano apolidi, persone senza radici nazionali ma anche sentimentali. C’è un posto nel mondo per persone come Diego o la sua famiglia?

Il mondo intero è per Diego e la sua famiglia. Questo è ciò che la protagonista va raccontando in tutto il romanzo. Loro abitano il mondo, sono alcune persone o i sistemi nazionali che cercano di fargli sentire che hanno bisogno di avere radici e senso di appartenenza, quando i fenomeni migratori, che esistono da quando esiste l’umanità, ci mostrano che più che radici abbiamo bisogno di essere rizomi, che si spostano da un luogo all’altro. Le persone che si muovono nel mondo nonostante gli ostacoli fioriscono e mettono radici ovunque vadano. La protagonista dice: “Io vengo da dove vivo” e non c’è verità più grande.

Anche la civile Europa sembra reggersi su rigidi preconcetti con cui la famiglia Diaz, una volta fuggita dal Messico ed approdata in Spagna si scontra. Siamo il lavoro che facciamo? Agli occhi degli altri quanto ci (s)qualifica il ruolo che la società ci affibbia in base alla nostra provenienza, al colore della nostra pelle, alla nostra religione o alla lingua che parliamo?

Vorrei sottolineare che l’Europa sta dimostrando che i suoi valori democratici vengono continuamente calpestati quando si tratta di controllo dell’immigrazione. Il controllo delle migrazioni è un grande business che assorbe denaro pubblico che potrebbe essere utilizzato per investimenti in sanità pubblica, istruzione, alimentazione, nel rispetto dei diritti umani, ma si è visto, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, che trarre profitto dalle persone è molto redditizio e si è permesso che le frontiere crescano in tutta Europa perché è un grande business. Mi sembra quindi che la questione non sia se siamo il lavoro che facciamo o se siamo etichettati per il colore della pelle, la lingua e così via. La domanda è: perché crediamo ancora che il lavoro sia ciò che costituisce una persona e, se è così, perché permettiamo che ci vengano tolti diritti? Se permettiamo che una persona subisca violenza a causa delle sue origini o del suo lavoro, rischiamo di subire la stessa violenza.

Viaggiare il più leggeri possibile perché davanti a tutti noi c’è una tomba col nostro nome. La morte sembra essere l’unico punto fermo nelle vite e nelle relazioni precarie dei personaggi che animano le pagine di Cenere in bocca. Sbaglio?

La morte è il destino di tutte le persone e di tutti gli esseri viventi che abitano questo pianeta. Non è una condanna, ma una realtà alla quale nessuno sfugge, né un europeo, né un asiatico, né un messicano. Tutti moriremo, la domanda è: perché c’è chi può avere una vita dignitosa e chi no? Beh, perché abbiamo accettato che ci siano persone di prima e seconda classe. E per me, la responsabilità etica di mettere in discussione tutto questo non viene dalle persone che subiscono violazioni sistematiche dei loro diritti, ma da coloro che li hanno, i diritti, e preferiscono voltarsi dall’altra parte credendo di far parte della prima classe. Questa è stata la storia dell’Europa e guardate in che situazione ci troviamo ora.

Quanto è importante, ma anche al contempo difficile riconoscere e saper accogliere la fragilità di persone come Diego? Quanto le dinamiche di una società come quella odierna entrano in profondità nelle nostre vite, spaccando famiglie e acuendo le ferite delle persone meno forti?

È la domanda che mi sono posta quando ho iniziato a scrivere il romanzo e non ho ancora una risposta. Non riesco a concepire un mondo in cui ci voltiamo dall’altra parte davanti a qualcosa che non ci riguarda direttamente, ma questo accade quando siamo stati educati in società consumistiche e individualiste. Credo davvero che il potere risieda nel creare e ristabilire reti di affetti.

La musica in questo libro ha un ruolo cardine. Come mai la scelta dei Vampire Weekend? Quanto è importante la musica nella tua scrittura? C’è qualche artista che vorresti mischiare alle prossime pagine che scriverai?

Non riesco a scrivere senza musica, per me scrivere è ascoltare ancora e ancora e ancora musica perché è un modo per connettermi con il mio corpo e la mia memoria emotiva. Ogni canzone genera una reazione, un’emozione, un’idea, e quando scrivo e riascolto le stesse canzoni, allora riesco a trasportarmi in ciò che mi ha davvero emozionata e a partire da quell’emozione scrivo. Tradurre le emozioni in linguaggio è la cosa più gratificante dello scrivere romanzi. Ho scelto la musica dei Vampire Weekend perché nella loro canzone Sympathy ho trovato l’epigrafe e, incidentalmente, il nome del fratello della protagonista, quindi ho pensato che potesse essere stimolante dialogare con la loro musica, che è così allegra, per trovare poi qualcosa di ben più cupo, come nel romanzo.

Nel libro le parole sembrano seguire il corso di un fiume, gli argini sono pochi e il ritmo sembra seguire il moto di un impetuoso flusso di coscienza. Anche la punteggiatura sembra fare il possibile per non snaturare il movimento dei pensieri espressi. Quanto è naturale o voluto questo tipo di scrittura?

È intenzionale perché per tutto il tempo ho pensato che la protagonista, in una sorta di dialogo con Orfeo, cantasse una canzone triste. Ho sempre pensato alla mia protagonista come a una sorta di Orfeo del XXI secolo in viaggio con Ulisse. E per questo avevo bisogno che il ritmo variasse sempre, come una melodia.

Cenere in bocca significa anche che la famiglia, il sangue, si mastica ma non si sputa. Per quanto all’interno della famiglia ci possano essere spaccature e incomprensione è sempre lì che si torna per trovare il proprio posto nel mondo, che sia per emulazione o contrapposizione. È così?

Non so se il ritorno alla famiglia tradizionale sia quello che volevo veicolare, ma credo che esistano affetti indissolubili, anche se questo non significa che siano perfetti. La cenere nella bocca della protagonista è l’inizio del suo vero lutto, per me ogni vero dolore deve essere digerito per poter andare avanti. Questo è ciò che volevo comunicare.

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