Uno degli ultimi eroi del rock. Ci allontaniamo sempre più dal Novecento, e i suoi ultimi eroi con le loro facce siderali perfettamente riconoscibili scompaiono uno alla volta, come se questa new wave formato pixel fosse il mattatoio dei corpi sopravvissuti allo schianto del Duemila. David Bowie era un sopravvissuto: dalla fine degli anni Sessanta fino al 2016 ha continuato a sfornare dischi, a sperimentare, a riadattarsi, a creare personaggi, per finire a inscenare la sua magnifica dipartita con estrema delicatezza. Un maledetto egocentrico, un Dorian Gray venuto dallo spazio, il dandy che seguiva la lezione di Wilde nel fare della sua vita un’opera d’arte. Tra schizofrenia e droga, mostri e ossessioni quasi teatrali, Bowie ci ha accompagnato per l’intera seconda metà del Novecento e ci ha aperto le porte delle direzioni future del Duemila. È così ovvio che siamo qui a parlarne.
La faccia sbruffona di questo ragazzetto agli esordi è quella di chi sta cercando una direzione sopra i tetti di un’Inghilterra profondamente influenzata da Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, e importazioni americane di varia natura rock’n’roll e folk. La cosa che contraddistingue il giovane Bowie è questo amore spassionato per il sax, la passione per il jazz che ha quasi il sapore un po’ antico in un’epoca votata al rock, ma forse è proprio quello che ha aperto David a sperimentare e muoversi su direzioni diverse ogni volta daccapo. Un grande e caotico artista con la passione per la pittura, tanto che avrebbe preferito davvero essere un artista figurativo se non si fosse trovato a nascere nell’epoca del rock. Ogni epoca ha i suoi linguaggi e le sue forme espressive, la fine dei Sessanta e i Settanta sono quelle della rivoluzione della musica, quando le possibilità creative erano ancora al loro culmine, quando le melodie erano ancora tutte da scoprire. I Beatles avevano aperto una strada, i Rolling Stones avevano raccolto la sfida mettendoci dentro il roll, dall’altro lato dell’Atlantico Bob Dylan tracciava tutte le vie del folk rock. E così l’identità di Bowie è dilaniata ai suoi inizi, in fondo è solo un ragazzo che sta cercando il modo per esplodere, come tutti gli artisti più profondi, solo che deve farlo a modo suo, e quindi dopo due album (David Bowie e Space Oddity) profondamente influenzati da mode e stilemi dei tempi, la perdizione e il caos lo portano a seguire la sua stella come un re magio del rock’n’roll. Bowie è uno di quelli che prova a far sua anche la rivoluzione sonora di un album innovativo come The Velvet Underground & Nico. I due dischi The Man Who Sold The World e Hunky Dory parlano già dell’autentico David Bowie, ma saranno riscoperti e andranno a ruba solo dopo il grande successo di The Rise and Fall of Ziggy Stardust, che consacrerà anche la prima grande incarnazione teatrale di Bowie, il messaggero alieno e schizoide Ziggy. Di come siano nati mostri e personaggi nella mente di David è facile da comprendere se si scende a patti con il fatto che un artista è sempre un ossessionato, vive fantasmi privati e inferni, latenti schizofrenie: David Bowie ha provato a sfogare questi turbamenti dentro i ruoli che ha scelto di interpretare, e che di tanto in tanto gli sfuggivano di mano, come quel Duca Bianco capace di invocare il ritorno del nazismo, e poi smentire tutto. Del resto la saga delle contraddittorie dichiarazioni alla stampa di Bowie, diviso a metà tra l’uomo e il personaggio, l’artista e l’attore, si rincorre nel tempo, tanto che ancora restano vivi i dubbi sulla sua sessualità, sulla quale ha dichiarato sempre tutto e il contrario di tutto, con mille pettegolezzi a contorno a condire l’equivoco (Mick Jagger? Iggy Pop?).
La certezza è che David Bowie è stato un provocatore. La sua capacità creativa non aveva soltanto a che fare con il rock ma anche con la sua messa in scena, e si incarnerà in quel movimento glam che sarebbe un peccato ridurre solo al rango di moda dei tempi per la profondità della rivoluzione musicale ed espressiva di cui si fece portavoce Bowie. Ziggy Stardust prova la carta dello scandalo, è vero, ma si costruisce già a partire dal supereroe androgino Rainbowman che Bowie mette in scena nelle sue esibizioni live precedenti. Hunky Dory è un lungo viaggio nell’opera di un piccolo genio, tutte le tracce sembrano perfette e David non sbaglia un colpo: è a partire da questo disco che Bowie sa come scrivere canzoni immortali. Changes, Oh! You Pretty Things, Life on Mars?, la dedica a Andy Warhol, Queen Bitch, aprono le porte alla stagione felicissima del cantautore britannico. Ci pare chiaro che stiamo facendo i conti con un delicatissimo esteta oltre che con un tormentato musicista, l’uomo che ha chiuso il cerchio della sua vita con un disco che è insieme uno straniante ed estremo canto del cigno, l’annuncio della morte e della fine accompagnato da una sconfinata colonna sonora: uno showman fino in fondo, egocentrico e riservatissimo, con tutte le contraddizioni del caso. Contraddizioni che sono apertamente urlate nella lunga cavalcata immorale di Ziggy, dove si condensano i turbamenti di Bowie dentro una storia e un concept venuto fuori direttamente dallo spazio più caotico.
‘La mia natura sessuale è irrilevante. Sono un attore, recito una parte, frammenti di me stesso”, ci ha sempre preso in giro Bowie, come un maledetto eroe che flirta con il pubblico e poi lo lascia a bocca aperta, spiazzandolo con l’atto finale. E in un sol colpo di genio teatrale spiazza anche colleghi e musicisti che fino a poco tempo prima era lui ad ascoltare, riuscendo a incantarli e stregarli: Lou Reed si fa aiutare proprio da Bowie per l’album Transformer, Mick Jagger è profondamente affascinato da tutto quel magnetismo libertario che sprizza dallo spirito di David (del resto Jagger stesso aveva messo in piedi una prorompente messa in scena per Sympathy for the Devil). David Bowie diventa un’icona. La sua faccia colorata sulla copertina di Aladdin Sane è una saetta che gira di bocca in bocca, tra uno sguardo e l’altro. E per tutto il corso degli anni Settanta non fa altro che inventare storie, percorsi, direzioni, personaggi, musical, visioni e suoni: è così fervido da diventare un museo ambulante di suoni, un misterioso musical teatrale tutto diretto da sé, uno scossone furioso che prende a calci la storia del rock per riportarla a casa. Collabora con John Lennon, che del glam aveva detto ”rock ‘n’ roll col rossetto”, nel pezzo Fame da Young Americans, prendendosi gioco e rivincita su tutti, e arriva all’appuntamento con il glaciale Duca Bianco completamente rivoluzionato nel look e nella posa.
Nella trilogia di Berlino si condensano gli anni fumosi e disperati di David Bowie, il consumo di cocaina, la dieta a base di sigarette, peperoni, e latte, e i deliranti richiami a epoche naziste in cui si lanciava in provocazioni come “Adolf Hitler è stato la prima vera rockstar”: il personaggio e la posa iniziano a divorare tutto il resto, i fantasmi prendono il possesso del corpo. Ma chissenefrega, in quegli anni Bowie continua a tirare fuori dal cappello magico pezzi che diventeranno immortali, guida una sonora rivolta anche grazie alla collaborazione di Brian Eno, e probabilmente grazie all’inno generazionale Heroes compie anche un piccolo miracolo di apertura che porterà al crollo (solo ideale) del Muro di Berlino. La musica e le parole possono creare più di quel che si pensi, e gridare “we can be heroes just for one day” donare una carica pazzesca quanto l’inno della rivoluzione francese. Il fatto è che Bowie ha provato a cantare e decantarlo, questo mondo affranto e confuso, e la Berlino dei Settanta diventa la metafora di una Guerra Fredda ambulante che ha bisogno di trovare il suo sound. La colonna sonora perfetta arriva con l’album Low, che gode dell’aiuto di Eno per condensare i mostri nella mente di Bowie di una Varsavia devastata dalla guerra in Warszawa, e affonda e ferisce il sempreverde turbamento boweiano con pezzi devastanti come Sound and Vision e Always Crashing in the Same Car. Si dice che esista una sorta di fascinazione maledetta del rock dei Settanta per il Diavolo, contraltare della cultura hippies dei Sessanta, dell’epica lennoniana peace/love/yoko ono n’ imagine, una fascinazione che si apre con il canto bulgakoviano degli Stones e che nella trilogia berlinese si respira anche in Bowie. Sono produzioni maledette quelle del David Bowie berlinese, che non lasciano preconizzare nessuna svolta dance. Eppure David sa sempre come sorprendere, e il dandy riesce ancora a trasformarsi. Frammentato, camaleonte, diviso, David Bowie è anche quello di Ashes To Ashes e Let’s Dance, e da qui in poi stanno per iniziare sotto i nostri occhi quegli anni Ottanta da cui faticheremo sempre a uscir vivi. Mentre i Sex Pistols provano a far vibrare un genuino punk di contestazione, e dalla stessa Inghilterra del Duca arriva il disagio di Unknown Pleasures dei Joy Division, Bowie abbraccia gli anni Ottanta disegnando un altro genere di direzione, seppur come complice e preconizzatore della direzione della new wave morbosa di Byrne.
Sono queste contraddizioni e sperimentazioni continue a fare di David Bowie un mostro, la sua influenza sulla musica è inesplorabile per gente come me – anche perché esiste una separazione ideale tra me e Bowie da questo momento in poi, ma pur sempre fraternamente o appassionatamente fervida nello scambio a distanza, tanto che se ne possono percepire battiti sul lungo andare. Al contrario di molti musicisti che hanno messo il sedere a terra sugli allori del proprio genere e della propria età, Bowie è stato un fulgido sperimentatore che ha provato sempre a rinnovarsi, un furetto che voleva capire la musica elettronica prima che esplodesse, un innovatore che non avrebbe mai smesso di cercare una direzione al suo sound. Lo dimostrano persino gli ultimi due album, che riportano la maestria del camaleonte pazzo ad altissimi livelli, dimostrando la profonda distanza che separa il ragazzo venuto dallo spazio dalla scena contemporanea. Anche si trattasse solo di puro marketing, gli stilemi di Bowie hanno continuato a funzionare anche nel Duemila, e lui ancora una volta è riuscito a prendersi gioco di tutti. Ancora una volta ci ha spiazzato, deriso, ma con la creatività di chi in fondo vuol farci solo un regalo. Poi ci ha straziato, e messo alle strette in un angolino delirante a provare a decifrare i suoi messaggi, come al solito. Laggiù, tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà, dice L’invito al Viaggio di Baudelaire, e così è stato questo piccolo viaggio di inizio anno dentro la mente sempre ricca di mostri e visioni di David Bowie. Ci siamo lasciati trascinare ancora una volta, dalla sua straziante vita da dandy, e ci siamo fatti accompagnare verso il viaggio finale, l’ultimo. Grazie di tutto Bowie, da Blackstar a ritroso nella memoria.
parole di Gio Taverni
E per concludere questo piccolo viaggio, sentite qua come viene raccontato, poi mettete un disco a caso e salvatevi dal delirio lì fuori.
”Bowie ha sdoganato la promiscuità musicale, ha attinto a piene mani da tutto ciò che gli girava attorno e lo ha trasformato con un occhio visionario e futurista. Nelle sue mani pure un brano folk semplice (come Space Oddity) diventa qualcosa di più di un brano di ispirazione beatlesiana, trascende il genere, e si trasforma in qualcosa di diverso, spaziale e alieno. Pure il rock di Ziggy Stardust non è mai veramente rock e non è mai veramente folk, è tipo David Bowie.” – parole di Salvatore Sannino
”David Bowie è stato un gran musicista, un ottimo performer, ma sopratutto un artista senza pari in questa epoca. Sì è inventato la Rockstar (e non venitemi a parlare di Elvis). È uno che ha suonato tutto, si è fatto tutto (e tutti) ed ha praticato ogni istante della sua vita come un’opera d’arte. È una specie di Andy Warhol musicista. Da lui sono partite cose diametralmente opposte: il suo spirito di rottura con la società (era uno che nella perbenista Inghilterra dei primi ’70 esibiva fellatio alla chitarra di Mick Ronson) ha fatto da spina dorsale nei movimenti punk degli albori, la sua estetica barocca ha dato il La allo stile di certe rock star patinate ’80 e ’90 (non ultimi gli odiati Guns N’ Roses), in ogni caso chiunque abbia cercato di prenderne solo un aspetto, non poteva che finire miseramente fuori strada. Un po’ come Sciiti e i Sunniti. Bowie è Maometto.” – parole di Seppino Di Trana