Bonobo – Migration

A chi mi ha chiesto cosa ne penso dell’ultimo disco di Bonobo, dopo i primi ascolti ho risposto senza molte esitazioni che non mi è sembrato aggiungere niente di nuovo ai precedenti, che mi sembrava tutt’altro che originale. Un incipit del genere di solito si chiama una smentita progressiva introdotta da ascolti ripetuti successivi, o una sonora bocciatura.

In realtà più ascolto Migration e più mi convinco che il signor Simon Green – voglio dire, pure il nome lascia trasparire poche sorprese – non abbia composto Migration aspettandosi che qualcuno vi avrebbe trovato rivoluzioni, e ciò nonostante, il mio è un parere tutt’altro che negativo. Infatti, nei lavori precedenti le rivoluzioni Green le ha fatte, e identificare un suono da associare immediatamente all’etichetta Bonobo, in un mercato musicale così affollato, è ogni giorno più difficile. Inoltre, nella storia personale del sottoscritto, come immagino di molti altri, Bonobo ha introdotto per la prima volta l’idea che si potesse fare elettronica dance e risultare musicisti credibili.

Per quanto mi riguarda, con la sua leggerezza ha affiancato nella mia galleria di miti bands come Sonic Youth, Yo la Tengo, Deerhunter introducendo una serie di suoni a me inediti, che mi hanno portato ad espandere un percorso già intrapreso sulla scia della svolta elettronica dei Mogwai, passati dal post-rock strumentale puro all’ambient della loro seconda fase, ma aggiungendovi una consapevolezza jazzistica superiore, una profondità orchestrale tipica di ensamble quali Hidden Orchestra o Cinematic Orchestra. Eppure, rispetto ad essi, forse proprio a partire da essi, Migration è qualcosa in più.

La sofisticatezza del suono di Green raggiunge qui vette ineguagliate dallo stesso Green, che dopo quindici anni di carriera, a questo giro si limita a raccogliere, rivedere, mettere insieme all’apice della sua maturità e grazia. Il suono di Migration sa abbassarsi di tono senza scendere di livello, contaminarsi senza rinunciare all’immediatezza nè alla qualità, senza appiattirsi quando il jazz si apre al drumbeat o dilaga nell’house, né rinunciare a essere groovy quando passa a momenti puramente ambient o suoni aerei che attingono dalla musica orientale o africana. Il suono mantiene il suo equilibrio e la sua compattezza e complessità anche quando alla musica si accompagnano le splendide esecuzioni vocali degli ospiti, quali Nick Murphy o il marocchino Innov Gnawa, che ammiccano sfacciatamente a vibrazioni pop, e vi si accomodano senza sovrapporsi, come parte del tutto.

Proprio volendo cercare di individuare un qualcosa di specifico che distingue Migration dagli altri dischi, la troviamo nella ricerca di delicatezza e sofisticatezza a spese della dance-floor. Migration costruisce atmosfere piuttosto che incontri, avvolge piuttosto che scivolare tra le gambe per mettere in moto il resto del corpo, cerca il dialogo con l’ascolto piuttosto che suggerire il silenzio. È il Bonobo dell’ensemble che Green riunisce nei tour strumentali, piuttosto che nelle sue uscite solitarie da DJ, come nel concerto in cui ho avuto la fortuna da vederlo, qualche anno fa, a Bristol, uno dei live che mi ha impressionato di più nella mia esperienza di ascoltatore.

Se chiudo gli occhi durante l’ascolto di Migration, lo immagino al centro della scena come un maestro d’orchestra, Green, con intorno una quindicina di strumentisti, tra fiati, tastiere, chitarre e percussioni, lui composto e impassibile, consapevole di ogni singolo suono che circola sul palco, che alterna una ferma direzione alle sue parti di basso, tastiere e synth, alle spalle un tripudio di giochi di luci colorate. Se avete ancora bisogno di conferme, non fermatevi ai dischi, andate a vederlo live, già che porterà il nuovo disco a Milano, unica data italiana, a marzo. E scoprirete come si può stupire senza proporre novità, come si può meravigliare senza rivoluzioni, come si può semplicemente confermare il proprio straordinario talento con un capolavoro di coerenza, piuttosto che svaccare alla ricerca compulsiva di qualcosa di nuovo. A volte le conferme sono proprio quello di cui abbiamo bisogno.

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