Justin Vernon è uno di quei rari musicisti capaci di tirarci fuori da una certa abulia contemporanea: ci fa ri-fiatare, una boccata d’ossigeno a cui si accompagna una generosa dose di hype e fibrillazione, un’ombra luminosa che circonda ogni nuovo vagito del cantautore di Eau Claire. Vernon è uno di quei rari musicisti che potremmo definire artista a tutto tondo senza paura di sbagliarci. Così è del tutto naturale che l’annuncio di un nuovo album dei Bon Iver faccia salire le attese al massimo: che altro avrà inventato Justin a questo giro?, come saprà emozionarci, e perché ci scommettiamo già sopra a occhi chiusi. Eppure non abbiamo firmato nessun contratto con Vernon, nessun patto di sangue tra i boschi americani: anche se monta questo hype straziante intorno alla sua musica, non è che debba per forza piacerci tutto; conosciamo inoltre le parabole discendenti delle produzioni musicali, e come sia complesso mantenere le promesse con il rischio addosso di ripetersi – mandare avanti tutto a memoria una volta individuata la “formula” magica ad libitum. Ma Justin Vernon non è solo un cantautore: è un artista che fa musica, e in quanto tale sperimenta, ricerca – e molto spesso trova.
La storia di Bon Iver comincia nell’ormai distante 2007 nella piena solitudine dell’inverno del Wisconsin, con For Emma – che chiunque sia, è – Forever Ago. Al tempo Bon Iver vedeva la luce come un progetto indie-folk molto più scarno e intimista di quello che poi è diventato – e chissà se qualcuno a quel tempo ci avrebbe scommesso sopra sulle destinazioni che avrebbe finito per sondare Vernon. Se oggi esiste una banale confusione nell’approccio al singolare o al plurale sul nome Bon Iver, forse è per via dell’equivoco di quel disco d’esordio, o di quei concerti che sono passati in qualche anno dalla dimensione del club a quella delle arene. A distanza di 12 anni i Bon Iver sono diventati un vero e proprio collettivo di musicisti, e nel corso di questi 12 anni i due album Bon Iver, Bon Iver e 22, A Million hanno sancito la consacrazione del talento artistico di un gruppo da cui non riusciremmo a staccare le orecchie neanche volendo. Ci ritroviamo a fischiettare ancora certe melodie, a canticchiare pezzi che dentro il nostro sangue non hanno mai smesso davvero di circolare. È questo il miracolo di Bon Iver? Non esclusivamente.
22, A Million era andato a fondo nell’indagare una certa cifra della musica dei Bon Iver, un autentico linguaggio: basterebbe dare un’occhiata sbadata a qualche titolo – 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄ – per farsi l’idea di una cripticità dell’album tutta da re-decifrare. Con i Bon Iver riapprezziamo la musica come vero e proprio linguaggio immersivo a sé stante: sono gli strumenti, le voci, i suoni, le melodie, i piccoli dettagli e incastri che parlano alla nostra anima nella maniera più diretta possibile. Una stregoneria emotiva, dove la semplice dimensione testuale si sovrappone a un’altra lingua che chissà da quali vecchi e nuovi mondi ha origine. Del resto non ci sorprende scoprire che Vernon abbia trovato Dio/God all’Ace Hotel, qualunque cosa sia questa divinità a cui finiremo per rivolgere sempre un grande quesito irresolubile: “Why are you so far from saving me?”.
La dimensione artistica immersiva della musica di Bon Iver diventa ancora più chiara se ci mettiamo a guardare il video che sta accompagnando la presentazione del nuovo disco, i,i. Il film dal titolo Bon Iver: Autumn ci guida diretti dentro l’autunno sonoro di Bon Iver, ed è abbastanza divertente che gli album fino ad ora usciti siano quattro come le quattro stagioni. Justin Vernon racconta il gran lavoro che ha accompagnato l’ideazione della scenografia per il tour dei Bon Iver (in particolare per il live alla Sydney Opera House), con un lavoro che ha mescolato le menti e le idee di produttori e artisti per dar vita a installazioni che hanno tratto ispirazione persino da Kandinskij, maestro russo dell’astrattismo. C’è stato un tempo in cui l’arte figurativa si è staccata dal racconto della realtà come imitazione, e ha creato un suo proprio linguaggio: quel linguaggio si agitava dentro le forme di Kandinskij, i colori di Rothko o il dripping di Pollock. Metterci la ragione dentro per capire certe tele potrebbe rivelarsi inutile, ci vuole il sentimento per entrare in quella dimensione. Così agisce pure la musica dei Bon Iver. Allora al nuovo album i,i dobbiamo arrivare sospendendoci dalla realtà, e penetrando questa dimensione astratta, emozionale, che sta altrove.
L’autunno chiamato i,i è una meraviglia. Ce lo avevano già lasciato intuire i due singoli che hanno accompagnato il lancio del nuovo album, Hey, Ma e U (Man Like). Il primo pezzo è un tipico afflato di atmosfere in crescendo alla Bon Iver, impreziosito dai vocals di Jenn Wasner (Wye Oak): le invocazioni di Hey, Ma mettono i brividi e consacrano già il primo grande classico dell’album. U (Man Like) parte forte sulle note di un piano, e si distende grazie all’estensione della voce di Moses Sumney che in coppia con Justin Vernon è letale: insieme ci regalano uno pseudo-gospel per tempi contemporanei. Wasner e Sumney non sono gli unici ospiti d’onore presenti in i,i: già al secondo pezzo – dopo la breve intro di Yi – ritroviamo James Blake. iMi è un autentico frammento di bellezza: la voce di Vernon fa il verso a quella riconoscibilissima di Blake, con Aaron Dessner (The National) a piano e chitarra, e un testo che lascia di sasso mentre frammento su frammento si costruisce la traccia.
L’uscita di i,i era prevista per il 30 di Agosto, ma Vernon ha spiazzato tutti rilasciando in anticipo il disco, track by track. È così che ci siamo ritrovati dentro l’incantesimo, e non abbiamo potuto più frenarlo. Ci siamo ubriacati dentro We, siamo riemersi ai mondi fantasmagorici di Holyfields, (virgola compresa nel titolo) – esattamente in quel punto, stonati e ammaliati dai falsetti di Vernon, abbiamo avuto riprova della capacità di Bon Iver di trascinare su altre dimensioni. Abbiamo rimesso i remi dentro la barca e abbiamo lasciato che fosse la corrente a trascinarci via. E quando in sequenza, appena dopo i colpi al piano distensivi di Naeem, su Jelmore abbiamo avuto la sensazione di un Vernon che canticchia dentro un pezzo di Aphex Twin, non ci siamo poi sorpresi più di tanto. L’elettronica sopravvive anche in questo disco, quasi rivive in canzoni come Faith. Poi arriva Marion, vero colpo al cuore del disco: scarna come l’inverno boniveriano, con quel testo che continua a ripetere “Well I thought that this was half a love”, ci riporta a casa con quella chitarra acustica e intima in cui non possiamo che dis-perderci. Bon Iver canta come Bon Iver sa fare, noi ci sintonizziamo, e siamo già perduti dentro il gran sogno di Marion – e chi sia Marion poi che importa.
E così arriviamo al dolce addio delle quattro stagioni di Vernon e compagnia. Il sax che ci accompagna su Sh’Diah è un quasi-commiato prima di uscire di scena: suona e quasi sembra essere una voce, un vocal che si sovrappone alla voce di Vernon, un arrivederci soffuso. L’ispirazione resta viva fino alla fine su RABi, la scintilla è ancora accesa con un messaggio di speranza conclusivo, “Well, it’s all fine and we’re all fine anyway”. Non capita spesso di sentire messaggi di speranza negli ultimi tempi. Eppure siamo vivi. Tutto è nelle nostre mani. Lo diceva il vecchio rock, people have the power. Per un attimo i Bon Iver ci sospendono in un mondo dove abbiamo il potere di stare bene. Miracoli della musica. Benvenuti nell’autunno dei Bon Iver: maestoso, ispirato, letale. Un album che si è già conficcato sottopelle, e non se ne andrà.