Capisci che non sarà il solito concerto quando, entrando in un Locomotiv ancora “semideserto” (pessima scelta di termini, dato che stiamo parlando di un cantante tuareg… ma almeno vi risparmierò riferimenti alla Volkswagen dello stesso nome, o alla Scirocco, lo giuro), al posto delle solite t-shirt di pessima qualità, che, sto notando, ultimamente vengono venduti a prezzi sempre più al limite della rapina (ok, colpa della pirateria, che non fa altro che aumentare i costi dei live… ma sto facendo un’altra digressione, dovrei smetterla), trovi dei gioielli e un uomo in turbante dall’altra parte del bancone, proprio lì dove dovrebbe essere posizionato il classico tipo tatuato, barbuto, sovrappeso e soprattutto stanco di sentirsi chiedere “quanto viene il CD?” da gente che non lo comprerà mai, quel dannato CD.
Fatta questa premessa, con molte difficoltà, lo avrete notato, è lecito spendere due righe sul pubblico in sala, equamente diviso tra gente normale, classici hipster ad oltranza e tanti, inaspettati over-50 sovrappeso, forse attirati dalle recensioni positive su Rolling Stone, e dal fatto che Bombino si dichiari ispirato a Hendrix e Knopfler. Sarebbe interessante, dico, un saggio su questa nostalgia da guitar-hero che affligge i sessantottini, quella che li spinge tuttora ad infilarsi ai concerti dei Muse. Per non parlare di Santana, che ancora riesce a vend… ma avevamo detto basta alle digressioni.
Ora è il momento del paragrafo di rito sul gruppo spalla, che, chissà perché, finisce sempre dentro una di due categorie: il commento annoiato (“un gruppo promettente che deve maturare”) o il responso “piacevolmente sorpreso” (in cui è d’obbligo sottolineare la presenza di applausi da parte del pubblico, boh). In questo caso, opterei per la prima. Above the tree, nome d’arte di Marco Bernacchia, con la sua maschera da pennuto, presenta in questa occasione il suo nuovo progetto con il Drum ensemble du Beat: CAVE_MAN. La loro esibizione è un mix di tropicalia, chitarre riverberate in loop, registrazioni en plein air, microfoni distorti in cui gridare lamenti e l’obbligatorio tocco di elettronica dato dalle percussioni digitali. Sinceramente, non mi hanno convinto: il tutto mi è parso poco originale e, soprattutto, un po’ datato. Per capirci, io ci ho visto un mix tra i Caribou, Duke Garwood e, non chiedetemi per quale motivo, i Cyborgs (saranno state le maschere). Comunque, forse ho sbagliato tutto quindi qui sotto potete trovare il video del primo singolo e giudicare da voi.
Giunto al momento delle doverose note biografiche, mi rendo conto che la vita così densa e avventurosa di Bombino potrebbe oscurarne le indubbie capacità musicali. In parole povere, a raccontare la storia di un touareg nato in Niger che a 31 anni suonati è riuscito ad arrivare a Nashville per farsi produrre l’album da Dan Auerbach (già alle prese con il riuscito Locked down di Dr. John lo scorso anno) è facilissimo scadere nella retorica più becera. È un po’ l’effetto Charles Bradley, il vecchio mantra del self made man applicato alla musica.
A neanche 40 anni, Bombino, il cui vero nome è Omara Moctar, ha già conosciuto gli alti e i bassi della vita, nel loro senso più estremo. Sa cosa significhi nascere tra altri 17 fratelli, cosa voglia dire l’esilio, affrontato in seguito alla ribellione touareg contro il governo del Niger nel 2007, in cui lui stesso ha perduto due membri della sua band, e, allo stesso tempo, come ci si senta a suonare con Charlie Watts e Keith Richards, di cui non conosceva minimamente l’identità, come gli è accaduto nel registrare una cover di Hey Negrita per un interessante album di riletture in chiave “world” dei successi degli Stones.
Il suo ultimo disco, Nomad, una collezione di brani elettrici e potenti, con al centro la Cort elettrica di Bombino, e prodotto, come già detto, dal chitarrista dei Black Keys, è stato acclamato dalla critica musicale di tutto il mondo con i classici, abusati termini: il disco è stato elogiato per la “riuscita contaminazione di generi” fatta dal “Jimi Hendrix del deserto”, che è riuscito a “creare un innovativo tuareg rock africano” (o, interscambiabilmente, “a dare nuova linfa desert blues”). E in questi casi, quando viene tirato in ballo il blues africano, non può non comparire il nome, l’influenza di Ali Farka-Tourè, capostipite del genere, autore di dischi stupendi, nonchè manna dal cielo per i giornalisti che si trovano a dover parlare di musica africana.
Ecco, la prima metà del concerto, acustica, rilassata, ipnotica, in cui la chitarra di Bombino era accompagnata soltanto da basso e percussioni, poteva in effetti rimandare al maestro del Mali, e devo dire che in certi momenti, negli spazi che una formazione del genere non può che lasciare nelle canzoni, sembrava mancare soltanto il contrappunto della chitarra di Ry Cooder, che con Farka-Tourè ha realizzato una bellissima collaborazione, da ascoltare assolutamente. Ma forse sto cadendo anche io nella trappola del clichè africano.
Sta di fatto che a metà esibizione, la band si solleva, in ogni senso della parola, e si trasforma in un quartetto rock con due chitarre elettriche, basso e batteria per suonare Her tenere, tratta da Nomad. Dal vivo, l’ultimo album di Bombino suona meno uniforme, anche grazie al batterista, energico quanto basta per compensare le carenze del resto del gruppo (davvero non all’altezza della situazione) e trasmettere il giusto vibe alle canzoni, che si alternano rivelando influenze che spaziano dall’ovvio afrobeat, nelle cadenze, al reggae, fino al rock, in particolare nei lunghi e concitati assoli di Bombino. Ecco, su questo frangente, credo proprio che gli over-50 siano tornati a casa soddisfatti: lo stile unico di Bombino, virtuoso ma al tempo spesso mai eccessivo e fine a sé stesso, più che a Knopfler, rimanda ad un certo blues texano d’annata, in particolare alla figura di Albert Collins.
Con la sua umiltà ed entusiasmo, Bombino è riuscito a conquistare il (numeroso) pubblico del Locomotiv che, al termine del main set lo ha richiamato a gran voce sul palco, reclamando il singolo estratto da Nomad, Aminidine. Desiderio che viene immediatamente accontentato, e che, seguito da un’ultima jam, segnerà la fine di un’intensa ora e mezza di concerto.
Credit: Ron Wyman
Arriva quindi il momento dei bilanci personali: quello di Bombino è stato un gran concerto, di quelli suonati davvero come se ne trovano pochi, e se si vuole trovare qualche pecca, va ricercata nella band, piatta e non di livello, e, forse, nelle dinamiche del set, un po’ monotono nei volumi e nel sound. Ciò non toglie, però, che ascoltare la chitarra di Bombino vale da sé il prezzo del biglietto e che il suo show è interessante anche da un punto di vista “musicologico”. Se siamo ormai abituati alla tendenza del mondo indie, che ormai da vent’anni, da Peter Gabriel fino ai Vampire Weekend, ha ampiamente saccheggiato i suoni dell’africa, guardare Bombino ci offre una sorta di rovescio della medaglia: la possibilità di vedere come popoli con tradizioni completamente diverse cerchino e riescano a fare proprio il rock mainstream e i suoi topoi, dall’idea stessa di concerto a quella di chitarra elettrica.
Cover credit: Chris Decato