«Be’, pensavo peggio, non è per niente male» diceva Nanni Moretti in Caro Diario visitando la zona urbanistica di Spinaceto, a Roma. E lo stesso si può dire in fondo di Bohemian Rhapsody, in gara questa notte per la premiazione degli Oscar, in un’edizione dominata dalle polemiche e dal potere di Netflix che da mesi porta avanti la sua campagna a favore del – bellissimo, va detto – Roma di Cuarón che le permetterebbe dopo la vittoria a Venezia di accreditarsi non solo come piattaforma di streaming ma sempre più come casa di produzione in scontro aperto con i tradizionali Studios.
Con l’eccezione di Roma appunto, de La Favorita del greco Lanthimos (come Miglior film) e la cinquina per il Miglior film straniero (con il bellissimo Cold War del polacco Pawlikowski), la 91a edizione della cerimonia degli Oscar sembra essere dominata da esigenze che appaiono più legate alla necessità di risollevare gli ascolti della ABC – con film per il grande pubblico – che a reali motivazioni artistiche.
Bohemian Rhapsody – biopic dalla genesi e dalla lavorazione tormentata – film più visto in Italia nel 2018 nonostante le sole cinque settimane di programmazione, e blockbuster in tutto il mondo, non sembra fare eccezione a questa tendenza ormai sempre più marcata che sta attirando per la prima volta esplicite critiche ai tanti giurati che costituiscono l’Academy.
Alla prova della sala, Bohemian Rhapsody si traduce in poco più di due ore di film che scorrono senza momenti di stanchezza – se non forse la tanto celebrata quanto inutile e pedissequamente lunga sequenza finale. Allo stesso tempo il film diretto da Bryan Singer e fortemente voluto e monitorato da Brian May e Roger Taylor è un’autocelebrazione pop che forza la mano in tanti, troppi punti. Se sono in fondo perdonabili quando riguardano l’uso disinvolto delle canzoni – con We will rock you spostata da un decennio all’altro – o quando semplificano per esigenza di sceneggiatura (l’incontro di Mercury con gli Smile e con Mary Austin, l’ingresso nella band di John Deacon, il tour negli Usa, il personaggio inventato di Ray Foster) non possono invece essere giustificate laddove, stravolgendo completamente la storia della band e dei suoi membri – la rottura dei Queen post Hot Space, il Live Aid come ricongiungimento dopo anni di allontanamento quando appena l’anno precedente era stato pubblicato The Works e, evidentemente la manipolazione più grave di tutte, la scoperta della malattia di Freddie anticipata di due anni abbondanti – appaiono come forzature strumentali alla volontà ben precisa da parte di May e Taylor di raccontare sé stessi come coloro che hanno tenuto insieme la band e i buoni samaritani che salvarono l’anima di Freddie dalla sua vita dissoluta (peccato che solo due mesi dopo il Live Aid, Freddie Mercury festeggiasse il suo 39° compleanno con un’incredibile festa a Monaco immortalata nel video di Living On My Own).
Freddie Mercury non poteva che essere il centro del film perché frontman dei Queen, perché leggenda e martire, perché dotato di un carisma senza il quale il resto della band – pur con le grandissime qualità di musicisti e autori che contraddistinguevano i restanti membri – mai avrebbe conosciuto successo. Rami Malek – vincitore di un Golden Globe come Miglior attore in un film drammatico e candidato stanotte come Miglior attore protagonista – fa quel che può ma la sua è una recitazione estremamente caricata di smorfie, mossettine e ammiccamenti che finiscono con l’infastidire per la continuità e la ripetitività con cui si presentano. Soprattutto, Malek, nonostante l’evidente impegno, è davvero poco credibile nella versione “maledetta” della seconda parte del film che alla fine è solo accennata senza che si scavi mai in profondità (uno dei motivi, questo, che portò alla rottura con Sacha Baron Cohen). Malek appare notevolmente più a fuoco nei momenti che hanno permesso anche al grande pubblico di scoprire le fragilità dell’uomo dietro la maschera da rockstar: il rapporto con Mary innanzitutto (una storia così bella da non poter essere scalfita) come anche quello con la famiglia e con Jim Hutton con cui vivrà gli anni della malattia.
Certo resta un mistero perché abbia dovuto recitare con quei cazzo di denti finti per tutto il film che ne riducono vistosamente la gamma espressiva oltre ad obbligarlo a un movimento continuo del labbro superiore – che Mercury accennava sì ma che qui assume le proporzioni di un tic – quando poi gli occhi verdi di Malek restano in bella vista per tutto il film a contraddire l’ossessione per la mimica e la ricerca di un’assoluta somiglianza fisica che ha messo da parte un’analisi che avrebbe potuto essere più autorale e attoriale.
Come in molti degli altri film in gara, dunque, il grande limite di Bohemian Rhapsody sembra risiedere nella mancanza di coraggio, nell’affidarsi, in definitiva, a un impianto classico che – più che alla regia – fa ricorso al montaggio e alle interpretazioni dei singoli.
Su questo fronte Gwilym Lee dà corpo a un Brian May sicuramente più efficace soprattutto in confronto al Roger Taylor appiattito dall’interpretazione anonima di Ben Hardy che, insieme alla scialba scrittura del personaggio, riducono quasi a caricatura la pur brillante personalità del batterista inglese.
A emergere su tutti è – ed è un peccato vederlo senza nemmeno una candidatura – Allen Leech (visto in Downton Abbey) che regala un’interpretazione a tutto tondo di Paul Prenter – l’assistente personale di Mercury – tra meschinità e desiderio, affetto e vendetta e che davvero distanzia e non di poco il lavoro di tutti gli altri.
Alla fine ne esce una storia animata da troppi personaggi bidimensionali, figurine messe lì in funzione di un racconto che troppo vuole dire e finisce col farlo in maniera troppo superficiale.
Eppure preso però per quel che è – vale a dire un prodotto pop fatto per arrivare a un pubblico più vasto possibile – Bohemian Rhapsody alla fine funziona. Perché la storia si regge da sola, perché le canzoni sono belle, perché restituisce – pur con le sue forzature – uno spaccato di storia della musica.
Mentre scorrono i titoli di coda – finalmente con la voce piena del solo Freddie Mercury, mentre per l’intero film la voce potente del cantante nato a Zanzibar nel 1946 è alleggerita e filtrata da un mix con la voce dello stesso Malek e di un altro cantante – resta l’amaro in bocca per un’occasione in fondo mancata che a veder bene aveva anche saputo cogliere i temi importanti: la fragilità dell’uomo dietro la sicurezza esibita sul palco e la spavalderia nei confronti di una stampa che lo attaccò per la sua intera esistenza, il suo essere parsi in una società come quella inglese degli anni sessanta e settanta, la sessualità vissuta come estasi e tormento, la vita improntata sempre all’eccesso a costo della sua stessa incolumità.
Al netto di tutto questo Bohemian Rhapsody resta un film che con la sua cifra anche un po’ grossolana restituisce anche l’anima di una band – grandissima certamente – che scelse però, soprattutto nel mezzo della sua carriera, una strada più facile e meno interessante di quella che i primi dischi (come anche l’ultimo Innuendo) avevano saputo mostrare.