Il caso-Blu: se la street art fa pagare il biglietto
Veronica Ganassi
Quello della street art è un tema che la realtà attuale, non solo ed esclusivamente quella italiana, fatica ancora a comprendere e a metabolizzare. Sempre più spesso, ultimamente, i giornali riportano notizie legate proprio al mondo dell’arte urbana in quello che sembra un tentativo dissimulato di renderla socialmente accettabile e ben vista anche da quella upper-class che ancora storce il naso davanti a un murales perché “insomma, è sempre un muro dipinto”. L’ultima frontiera di questo processo di legalizzazione, una volta deciso (ma deciso da chi?) cosa sia degno di essere considerato arte e cosa no, è quella di voler strappare, a volte letteralmente, le opere dalla città per inserirle in musei e mostre collettive.
Proprio di queste ultime ore è la notizia che vede come protagonista lo street artist Blu, che in un atto di protesta contro l’istituzione Bolognese Genus Bononiae, che a partire dal prossimo 18 marzo allestirà la mostra Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, ha deciso di coprire tutte le sue opere dipinte in quasi vent’anni nella città emiliana. Non è la prima volta che capitano episodi di questo tipo. Già negli scorsi anni alcune opere di Banksy ad esempio sono state esposte o vendute da Sotheby’s (una delle più importanti case d’asta inglesi) anche a cifre a cinque zeri. Ma la street art, forse ultima forma arte davvero libera, viene in questo modo privata del contesto che è forse la sua componente più importante. E’ un’arte che nasce e vive nel tessuto urbano. C’è un motivo se quell’opera è lì e non da un’altra parte. L’artista tiene in considerazione l’ambiente, la conformazione del luogo che la ospiterà e il punto di vista dal quale la si osserverà (vedi le opere di Ella & Pitr); se questi vengono a mancare quell’opera non esiste più. Un’opera decontestualizzata è un’opera che perde la sua onestà e può essere strumentalizzata. Quella che vuole essere un’arte per tutti si trasforma così in un’arte elitaria, fagocitata in quel processo di appropriazione ignorante che va tanto di moda in questi ultimi anni, come il caso, diverso, delle magliette di Unknown Pleasure o dei Rolling Stones. In qualche modo qualcosa che fino a pochi anni fa era un vandalismo, un feticismo di nicchia è diventato cool e questo è il prezzo da pagare. Voler diffondere la street art e farla apprezzare anche al grande pubblico è estremamente diverso dal volerla privatizzare e trarne un profitto. E ancora peggio è l’asservimento delle opere ad istituzioni che per i loro principi non potrebbero essere più lontane da quello che questo tipo di arte rappresenta e vuole esprimere. Se no si diventa un Mr. Brainwash qualsiasi, come racconta il documentario Exit through the gift shop. Incazzarsi per questo non è snob o hipster. Non è un tentare di tenere nell’underground qualcosa che dovrebbe essere esposto alla luce del sole ma al contrario è un riappropriarsi della propria arte. È come vendere qualcosa che ci hanno regalato. Certo, i limiti della street art, soprattutto in un paese di città storiche come il nostro, sono difficili da gestire. C’è anche il problema dell’imposizione di questo tipo di arte (se è per questo l’architettura stessa è una forma d’arte imposta) ma voler ghettizzare la creatività e relegarla a zone controllate ne snatura l’essenza. Per questo Blu, in quella che, a questo punto, è forse la sua più grande opera d’arte performativa, ha tutto il diritto di cancellare i suoi dipinti e invitarci a riflettere sul significato del gesto.