Nel 2018 Giorgia Tribuiani, classe ’85, ha esordito con “Guasti” – Voland, 2018. Leggendolo, ricordo di aver pensato di aver trovato una scrittrice nuova, capace di utilizzare la penna come un punteruolo e con quel punteruolo di scavare, tagliare, graffiare. Qualche settimana fa, infilandomi tra i pensieri e le parole della protagonista del nuovo romanzo di Tribuiani, ne ho avuto la conferma.
“Blu”, edito da Fazi nel 2021, è la nuova storia di Tribuiani. Un libro ben scritto, ben strutturato. Una voce unica quella della protagonista, una donna appena adolescente che deve fare i conti con una matassa di emozioni, sentimenti e pensieri che, credo io, appartengono a tanti, tantissimi ragazzi. L’ossessione, il disagio giovanile, il senso di colpa in questo romanzo sono colonne portanti e allo stesso tempo lavorano come forze devastanti. Fuochi, ecco cosa sono. Fuochi che illuminano, fuochi che bruciano. Ed è da questi fuochi che siamo partiti, io e Tribuiani, nella nostra chiacchierata.
Il senso di colpa mi sembra abbia un ruolo centrale, nel romanzo. Senso di colpa per quel che si è, per come si è fatti, come connaturato. Pensi sia una fase che, bene o male, attraversiamo tutti, da adolescenti, o è qualcosa che appartiene a Blu?
Penso siano vere entrambe le cose. Da un lato Blu sente di non essere all’altezza delle aspettative, proprie e altrui, e come tanti adolescenti (e non solo) ha vergogna di quei moti dell’animo e di quei pensieri che non corrispondono all’immagine che vorrebbe dare di sé, alla richiesta di “perfezione” cui sente di dover rispondere; dall’altro lato, a complicare tutto e a inasprire il senso di colpa, c’è il disturbo ossessivo-compulsivo di cui soffre.
Blu conta tutto, ogni cosa. Mettere ordine fuori per compensare il caos che c’è dentro?
Per avere l’illusione di poterlo domare. Il disturbo ossessivo-compulsivo è un disturbo legato al controllo: chi ne soffre riceve dalla mente continue immaginazioni terribili (si parla proprio di “pensieri intrusivi”) legate alla salute e alla felicità propria e dei propri cari, e l’ossessione nasce dall’impossibilità di fare qualcosa perché le immaginazioni non si trasformino in realtà. La compulsione diventa allora necessaria: Blu non può assicurarsi che la madre non faccia un incidente, ma se aprirà e chiuderà gli occhi cento volte questa paura “non si avvererà”. Ha molto a che fare con il rito magico.
Dualità. Essere divisi tra entità, versioni di noi stessi. Questa necessità di sdoppiamento, che credo serva a vivere sia il mondo esterno sia l’interno, pensi sia condizione umana comune?
Forse non tutti abbiamo lo stesso livello di “scissione” tra esterno e interno, però se qualcuno mi dicesse di non avere mai avuto un pensiero da nascondere, per il quale ha provato vergogna, o se sostenesse di non avere mai sentito l’esigenza di indossare una maschera e di vestire un ruolo nel corso di tutta la vita, be’, io ne sarei abbastanza colpita.
Una coabitazione tra queste nostre versioni è possibile?
La difficoltà principale è assicurarsi che possa essere una coabitazione pacifica e che, allo stesso tempo, la versione alla quale somigliamo maggiormente non venga confinata in uno spazio troppo angusto. Rischieremmo di non riuscire più a trovarla.
Siamo in tanti modi diversi, insomma. Cambiamo pure basandoci su chi abbiamo attorno e su chi pensiamo di dover essere in una data occasione. Ma chi siamo quando nessuno ci vede?
Forse siamo una versione un po’ più completa di noi, anche se mi chiedo fino a che punto. Quando siamo fuori da un ruolo siamo davvero svincolati da quel ruolo? Quando non dobbiamo rispondere alle aspettative delle altre persone, specie di quelle che amiamo, davvero ce ne svestiamo del tutto? Io credo di no. Da soli non proveremmo mai vergogna, altrimenti, e saremmo in grado di smettere di pensare a ciò che gli altri pensano di noi. Forse il problema principale è che le proiezioni degli altri continuano a esistere nelle nostre menti anche quando nessuno ci vede.
Ho avvertito incomunicabilità, tra Blu e chi la circonda, e credo sia uno dei grandi problemi del nostro tempo. C’è soluzione a questa quasi difficoltà nel comunicare?
Io ho una piccola convinzione, ovvero che alla base di tanti problemi di comunicazione ci siano prima di tutto problemi di ascolto. Blu parla di adolescenza, e questo è un tema che secondo me riguarda da vicinissimo gli adolescenti: in molti dicono che i ragazzi sono chiusi in un mondo tutto loro, che è impossibile raggiungerli, parlare con loro, ma questi molti, del resto, sono davvero disposti ad ascoltarli? A lasciare da parte le proprie esperienze personali, gli insegnamenti di vita e gli “ai miei tempi” per capire cosa i ragazzi hanno da dire? Per provare a comprendere un punto di vista “altro”?
Ciò che colpisce è anche lo stile. Sei riuscita a dare voce a una protagonista e al suo disordine mantenendo una certa aderenza stilistica. È stato un lavoro di lima o è venuto fuori in maniera naturale, seguendo i pensieri di Blu?
Buona parte delle scelte stilistiche, come la focalizzazione e l’uso della seconda persona singolare, sono state fatte a monte: ho sperimentato, studiato e cercato i miei modelli prima di iniziare a scrivere il romanzo. Sicuramente, poi, sono stati anche i pensieri di Blu a guidarmi: quando l’ossessione si faceva troppo forte, la mia scrittura scivolava verso il modo imperativo e la sintassi sincopata; quando invece la protagonista viveva i suoi rari momenti di calma potevo tornare al modo indicativo e a una sintassi più distesa.
Perché la seconda persona singolare?
Volevo che a parlare fosse l’ossessione, che il disturbo ossessivo-compulsivo di Blu prendesse le redini del romanzo e ne diventasse la voce narrante, e da questo punto di vista la seconda persona si presentava particolarmente vincente: mi permetteva di passare dal resoconto delle azioni di Blu all’ordine di compiere rituali e compulsioni senza soluzione di continuità, passando facilmente da uno “scendi le scale” indicativo a uno “scendi le scale!” imperativo. Inoltre questa voce narrante, rivolgendosi direttamente a Blu, poteva rivolgerle quella minaccia e quel ricatto che la voce del disturbo ossessivo-compulsivo rivolge a chi ne soffre (“se non farai quaranta bocconi, tua madre finirà al manicomio”).
“Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è ricordo.”, ha detto la poetessa, premio Nobel per la letteratura, Louise Glück. Leggendo il romanzo, mi sono tornate in mente queste parole e, allo stesso tempo, mi sono detto che Blu è come rimasta incagliata in certe sue prime esperienze. È così?
Assolutamente sì. I tanti salti temporali presenti nel libro ricalcano proprio il “funzionamento” della mente di Blu, che continua a tormentarsi riproiettando ossessivamente nella propria testa il ricordo del “paradiso perduto” (la prima infanzia in cui i genitori erano ancora insieme) e quello delle proprie colpe, a partire dall’umiliazione inflitta a otto anni alla sorellastra Lea. Come giustamente dici Blu è “incagliata” nelle sue prime esperienze, e non riesce a uscirne perché incapace di perdonare e perdonarsi.
Blu non è più una bambina, non è ancora un’adulta. Chi, cosa, siamo quando non ci sentiamo, quando non riusciamo a trovare il luogo a cui appartenere, quando riviviamo i ricordi di un tempo, di un’infanzia ormai passata?
Non è semplice dare una risposta, e penso che questa sia proprio una delle difficoltà di Blu: non sa guardarsi, definirsi, non sente di appartenere; si percepisce come un fascio di sensazioni, paure e sensi di colpa e l’unico modo che ha per fare ordine – l’unico modo che ha per guardarsi – è l’arte.
L’arte si fa specchio e ci permette di trovare una posizione per noi, per i nostri ricordi, per le nostre paure: offre una forma a ciò che non ce l’ha. È stato intenso scrivere i processi creativi di Blu e vederla trovare questo specchio; se non altro perché lei è stata il mio.