L’Irlanda, la musica e le bombe

Ci sono tanti momenti che potrebbero essere raccontati della lunga e drammatica storia del conflitto irlandese che ha visto migliaia di vittime tra i civili. Questi due episodi scelti sono particolarmente legati al mondo della musica. Il primo è probabilmente più noto, anche per le canzoni di successo che lo raccontano, il secondo invece è ancora nascosto nelle pieghe di questa terribile storia decennale.

Bloody Sunday

Per la maggior parte degli irlandesi siamo a Derry, per gli unionisti, siamo a Londonderry. Derry è la cittadina del Nord Irlanda passata alla storia per la sua Domenica di Sangue (Bloody Sunday), una strage di civili indifesi, a opera dell’esercito britannico. Il 30 Gennaio del 1972 una manifestazione pacifica viene soffocata nel sangue da una parte del reggimento di paracadutisti. Nella folla vengono colpite ventisei persone, alcune sparate alle spalle, tredici muoiono subito, un’altra, gravemente ferita, spirerà il giorno dopo. Il Nord dell’Irlanda, è storicamente al centro di una contesa tra la Repubblica Irlandese e la Gran Bretagna. Questo episodio radicalizza ancor di più la popolazione, spingendola da posizioni pacifiste a simpatie per l’IRA, l’Esercito Repubblicano Irlandese, nato alle origini del conflitto e che continua a esistere, dopo scissioni e abbandoni, a causa di trattati e accordi non condivisi da tutti. Questo episodio è centrale nelle vicende politiche e umane dell’Irlanda e lascia il segno anche su quella generazione di musicisti all’epoca ancora bambini o adolescenti ma che poi si farà strada nella scena internazionale. Anche quelli meno impegnati socialmente, faranno sempre dei riferimenti a questo o altri momenti del conflitto. In ambito cinematografico, qualche anno fa, è stato realizzato un film che ricostruisce dettagliatamente la vicenda. In campo musicale, ci sono alcune canzoni significative a riguardo; la più famosa è certamente Sunday Bloody Sunday degli irlandesi U2, presente sia nella tracklist dell’album War del 1983, che nella versione live di Under a Blood Red Sky di qualche mese dopo, ripresa dal live tour di War. È da sempre una delle canzoni simbolo della band di Bono Vox e The Edge, soprattutto per quanto riguarda il primo decennio della loro produzione. Tre mesi prima dell’uscita del disco, Bono la presentò in un concerto a Belfast, dicendo: “Si chiama Sunday Bloody Sunday, parla di noi, dell’Irlanda. Ma se non piacerà a voi, non la suoneremo mai più”.

Aveva poco più di undici anni Paul David Hewson quella domenica di gennaio e probabilmente quella canzone cominciava a maturare dentro fino a trovare la sua forma definita anni dopo appunto, quando avrà cambiato il suo nome in Bono Vox e sarà il frontman di una rock band. Alcune canzoni a riguardo furono scritte praticamente in tempo reale, anzi di trattare l’argomento del conflitto, qualcuno ci stava pensando già da prima del massacro di Derry. Ma andiamo con ordine.

Anniversario Bloody Sunday

Neanche un mese dopo i fatti, Paul McCartney scrisse un brano dal titolo Give Ireland Back to the Irish (Ridate l’Irlanda agli irlandesi), con i Wings, la sua nuova band, dopo i Beatles. Nel Regno Unito la canzone fu censurata nonostante le insistenze di McCartney che dichiarò:

“Era la prima volta che la gente si interrogava su quello che “noi inglesi” stavamo facendo in Irlanda. Era così scioccante. Scrissi Give Ireland Back to the Irish, la registrammo e mi telefonò subito il presidente della EMI, Sir Joseph Lockwood, spiegandomi che non l’avrebbero pubblicata. Pensava che fosse troppo provocatoria. Dissi che la sentivo fortemente e che dovevano pubblicarla. Lui disse: Beh, verrà vietata, e naturalmente così fu. Sapevo che Give Ireland Back to the Irish non era un percorso facile, ma semplicemente mi sembrava di essere al passo con i tempi che stavamo vivendo. Tutti noi nei Wings provavamo gli stessi sentimenti a proposito dell’accaduto. Il fratello di Henry McCullough, che viveva in Irlanda del Nord, fu picchiato a causa della canzone. Certi teppisti avevano scoperto che Henry era uno dei Wings”.

In un’altra parte del mondo, nello stesso periodo, un altro Beatle era a lavoro sulla stessa cosa. Per la verità John Lennon, che viveva il suo periodo americano in pieno impegno contro le guerre, già prima dei fatti di Derry stava componendo il brano The Luck of the Irish, in cui attaccava pesantemente il governo britannico, strizzando l’occhio all’Ira. Poco prima di chiudere definitivamente la registrazione inserì dei riferimenti al sopraggiunto massacro del 30 gennaio. Ma non si fermò a questo perché compose interamente anche Sunday Bloody Sunday, più centrata su quell’episodio, usando una decina di anni prima, lo stesso titolo degli U2. I brani andranno nell’album di Lennon del 1972 Time in New York City. Sollecitato in un’intervista sull’argomento del conflitto, e sulla sua simpatia verso un’organizzazione come l’Ira, Lennon disse: “se devo scegliere tra violenza e non-violenza, scelgo quest’ultima, ma se due persone si combattono, scelgo ugualmente chi appoggiare”.

Negli anni seguenti furono molte altre le canzoni dedicati al conflitto, anche da parte di musicisti importanti: Invisible Sun dei Police, Oliver’s Army di Elvis Costello, Streets of Sorrow dei Pogues, That’s Just the Way e It Both Sides of the Story di Phil Collins, Belfast Child dei Simple Minds. Nel 1973 Phil Coulter, nativo proprio di Derry, dedica alla cittadina colpita a morte la sua The Town I Loved So Well. Nel marzo del 1993 la band irlandese The Cranberries si trova in tour in Inghillterra, quando a Warrington nel Cheshire, ci fu un attentato, molto probabilmente dell’IRA, che vide tra le vittime un bambino di quattro anni. Dolores O’Riordan, lasciandosi prendere da quei fatti scrive Zombie, che sarà un successo mondiale dei Cranberries, dedicato alla giovane vittima e che spinge a suon di grunge a riflettere sulla violenza di quel conflitto, sulle morti innocenti di civili e sulle città irlandesi militarizzate e claustrofobiche, mostrate nel videoclip del brano.

Quella di Derry non è l’unica giornata macchiata di sangue nella lunga e dolorosa vicenda irlandese. Le vittime sono state migliaia nei tanti anni di guerra “a bassa intensità”. Nel cuore dell’estate del 1975, un’altra pagina nera segna il calendario delle cose che non sarebbero mai dovute succedere. È una vicenda tutto sommato ancora poco conosciuta e che merita di essere portata alla luce anche da questa parte della Manica.

Il massacro dei Miami Showband

Questa storia inizia come tante, con una band acclamata dal pubblico che parte col furgone e macina chilometri per far ballare la gente sotto al palco, ma che purtroppo però finisce drammaticamente come poche. C’entrano molte cose in questa vicenda e per comprenderla nella sua drammaticità dobbiamo sistemarle, ognuna al posto giusto. C’entra la geografia. E l’Irlanda che è il triste teatro dei fatti. Non solo perché la band è irlandese, ma perché il Nord dell’Irlanda è sempre conteso, al centro della disputa tra l’Inghilterra e il resto della Repubblica d’Irlanda. C’entra la storia, perché questa disputa radica nel tempo. C’entra la politica, soprattutto quella subdola, nascosta, che si annida e manifesta in quell’area “grigia” , in quel confine borderline dove la cosiddetta intelligence e i servizi segreti, agiscono senza troppi scrupoli, fuori da ogni controllo e protocollo. C’entra la religione, che concentra la maggioranza dei cattolici tra gli irlandesi, e i protestanti nella fazione opposta. Ci sono poi le organizzazioni paramilitari, quelle terroristiche (con le loro bombe), del Nord Irlanda fedeli alla Corona, e c’è l’IRA, l’organizzazione indipendentista irlandese. Poi ci sono le popolazioni civili, che pagano come al solito il prezzo più alto nei trenta anni di conflitto (3.700 morti e circa 40mila feriti). E infine c’è la musica, che in quegli anni svolge anche una funzione di svago, accoglie tutti e non fa differenze religiose o di altro tipo. Lo dimostra quello stesso palco da cui questa storia ha inizio.

I Miami Showband, sono i Beatles d’Irlanda, sotto al palco e in sala le urla a volte superano il volume della loro musica. Sono in sei, due dell’Irlanda del Nord, protestanti, mentre gli altri quattro, del sud del paese, sono cattolici. Ma loro probabilmente questi conti non li hanno neanche mai fatti. Quella sera del 25 Luglio 1975 si esibiscono nel Nord, e lo spettacolo è un successo di pubblico, come capitava ormai dovunque. Viaggiando spesso in ogni angolo del paese, da nord a sud, in fondo erano convinti che i musicisti avessero una sorta di immunità da tutta la tensione che invece intorno non solo si respirava, ma si manifestava concretamente in presidi militari, posti di blocco e controlli continui. Erano musicisti, portavano un messaggio di serenità, non correvano rischi, pensavano. Nel tempo il gruppo conosce vari cambi di formazione, d’altra parte, in quegli anni e in Irlanda in particolare, le band di maggiore fama eseguivano le cover di canzoni di successo, seguendo il nuovo corso del rock’n’roll di Elvis, di Chuck Berry, dei Beatles. Col tempo, poi, cominciano a presentare dei loro brani. Con la metà degli anni Settanta si consolida la line-up di maggior successo.

Miami Showband

Sono in sei, Stephen Travers suona il basso, Das Lee Mcalea invece il sax e scrive i testi, il batterista è Ray Millar, mentre alla chitarra c’è Tony Geraghty, Brian McCoy alla tromba e l’acclamato Fra O’Toole, considerato il più grande cantante soul del paese, suona il piano e diventa la voce di quegli anni di grande successo.

Alle due di notte, in cinque lasciano il locale di Banbridge, nella contea di Down, per far rientro a Dublino. Manca il batterista, Ray, che essendo del nord approfitta per far visita ai suoi e se ne va in macchina per conto suo. La band viene fermata per un controllo a un check point a Buskhill, fuori Newry. Vengono tutti invitati a scendere e a disporsi sul ciglio della strada mentre il veicolo viene ispezionato. La situazione degenera, un’esplosione investe i ragazzi che diventano anche bersaglio delle armi degli uomini in divisa. In quel massacro muoiono il chitarrista Tony Geraghty, il trombettista Brian McCoy e infine Fra O’Toole, nonostante le sue drammatiche suppliche ai cecchini di risparmiarlo. Steve, il bassista, si finge morto e ne esce vivo, sebbene malconcio e in fin di vita, mentre Das, il sassofonista, nascosto dal fumo causato dall’esplosione, riesce a prendere la via del bosco e a nascondersi.

La vicenda scuote tutti. Non sono i primi civili a morire a causa del conflitto, ma stavolta si tratta di un’esecuzione mirata, su un bersaglio inerme, e fuori dal “conflitto”. Resta inevasa la domanda più naturale. Perché? Le vicende giudiziarie, dopo oltre quarant’anni, hanno dato le prime risposte ma ancora non si sono del tutto concluse. Cosa è successo? Sul campo vengono trovati anche altri resti umani, che rimandano a membri di un’organizzazione paramilitare lealista. La ricostruzione faticosamente portata a termine, a causa di depistaggi e insabbiamenti, grazie all’insistenza dei due musicisti sopravvissuti (di Steve in particolare), ci dice che il piano prevedeva di fermare i musicisti prima del confine per un controllo, caricare a loro insaputa, una bomba a orologeria sul furgone, e lasciarli andare, per dimostrare che anche una semplice rock band si presta a trasportare bombe per un’organizzazione come l’Ira, e avere quindi un pretesto e mano libera per aumentare la repressione soprattutto in zone di confine come quella. Nel posizionare l’ordigno però qualcosa non va nel verso sperato, la bomba scoppia e a quel punto per non avere testimoni vivi, si uccidono a sangue freddo quelli ancora in vita. Emergerà la regia dei servizi segreti inglesi, a manovrare le operazioni dalle retrovie. La band continua a suonare per un po’, portata avanti dai due sopravvissuti, che però capiscono presto che dentro di loro niente è più come prima e mollano la musica. I Miami Showband potevano essere ricordati per la loro musica, per la loro canzone Clap Your Hand! Stomp Your Feet!, che faceva ballare e divertire una generazione di irlandesi, e invece sono ricordati, e neanche troppo per la verità, solo per essere stati le vittime di un violentissimo massacro, in una guerra a cui non avevano preso parte.

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