Da quando ho chiuso la finestra dello streaming di Caduta libera, prima puntata della nuova stagione di Black Mirror, non smetto di pensare a una cosa: l’ossessione che nutriamo attraverso la voglia di ottenere consensi da parte degli altri ci sta rendendo degli idioti senza consapevolezza. Tutto ciò che ci capita di pubblicare sui social ha una funzione ben precisa. Vogliamo divertire, intenerire, intrattenere, sentirci intelligenti e colti. Tutto quanto si riconduce a una performance, un teatrino appositamente costruito per i nostri contatti. E più riceviamo consensi (like, love, retweet, reblog e quant’altro) più crediamo di scalare una di quelle finte pareti rocciose. Me la immagino in vetro, in modo che i nostri amici possano guardare e valutare la nostra ultima fatica con cinque stelle per l’ottimo lavoro. «I numeri non contano», dice Susan a Lacie. Sì, facile parlare in questi termini se il tuo punteggio è 1,4. Andiamo, ricevere voti alti conta per far sì che la tua stronza e migliore amica voglia vederti in veste di damigella d’onore al suo matrimonio con un uomo dal punteggio pieno.
Questo episodio, così come tutti gli altri della serie, buca lo schermo attraverso cui lo stai guardando e ti prende a schiaffi in faccia. Ti spara uno di quei fari giganti che ti accecano nella notte mentre cerchi di scappare dall’inevitabile realtà. Che tu lo voglia o no, ti mette di fronte alla consapevolezza che di lì a poco dovrai prendere: i social sono una vera merda. Dico questo perché, oltre ai benefici che indubbiamente possiamo accaparrarci attraverso la condivisione istantanea di contenuti, i social diventano quel tipo di arena in cui sei al centro come Massimo (Il Gladiatore, ndr) e ti sguinzagliano contro un paio di leoni. Se sei riuscito ad ammazzare le povere bestie, allora puoi umilmente rimetterti al pollice della platea. Il problema non si pone quando il pollice è verso, anche perché ad oggi nessuno ha progettato la valutazione negativa – a meno che non si tratti della valutazione di un servizio (TripAdvisor, ndr) –, ma il vero problema potrebbe insediarsi nell’eventuale passaggio da un pollice in su ad uno in giù. In quel momento sei costretto a guardarti allo specchio e a chiederti cosa diavolo non vada in te.
Se solo applicassimo la stessa costanza che poniamo nella presenza sui social, a dire a noi stessi che quello non conta davvero, molto probabilmente non sarei qui ad abbattere un sistema che ci lobotomizza in modo così assiduo. Io stessa, da utente di diversi social, mi rendo conto che trascurandoli per qualche giorno le interazioni calano o addirittura si arrestano. Quei social che prevedono i follower poi sono i più diabolici i tutti. Vi faccio un esempio pratico della mia esperienza personale: su Instagram seguo 1549 profili. Sono per lo più account di gente reale, che fotografa – più o meno seriamente –, scrive, lavora e fa musica. Insomma, i miei seguaci domenica pomeriggio erano 1648. Un bel numero, se pensate che non ho mai pagato Instagram per ottenere mille follower per la modica cifra di 4$. Ad oggi i miei seguaci sono scesi a 1637, semplicemente per non aver dispensato pollici in su al resto dei miei contatti.
Da tutta questa storia c’è una cosa che ho imparato. Posso garantirvi che avrei molti aneddoti più o meno strani da raccontare, ma ciò che mi è rimasto sulla pelle come una patina che non va via è che il social non è reale. Non è reale perché in definitiva tendiamo a mostrarci al meglio e a nascondere le zone d’ombra che invece lasciamo emergere nella vita quotidiana.
Mi è capitato di leggere e tradurre I’m too short to ride this ride, un racconto di Merritt Tierce. Al suo interno c’era una riflessione del narratore riguardo una domanda posta ai test d’ingresso a Yale: Tu sei il tuo corpo? Il vero problema di questa domanda è nell’infinità di sfumature che il corpo assume. È questione d’identità, ma anche di equilibrio perfetto tra concreto e astratto. Perciò sì, io sono il mio corpo, o almeno concretamente parlando. Ma devo anche affermare con forza che io non sono solo un corpo. Questo vorrebbe dire ridurre a una questione tangibile tutta la faccenda. In maniera astratta no, non sono il mio corpo.
K, il nonno del narratore del racconto di Merritt Tierce, si definisce una creatura, viaggia per l’America con un vecchio atlante degli anni ’90 e va fuori di testa se non può vedere le stelle. La protagonista di Caduta libera invece è ossessionata dal piacere agli altri a tal punto che non si preoccupa per un solo momento di guardare le stelle. Lei vuole solo riceverne cinque come punteggio che le permetta di sentirsi a posto nel suo vestito rosa cipria.
Caduta libera, così come gli altri episodi di Black Mirror, ti lascia con l’amaro in bocca fino alla conclusione dei titoli di coda. Solitamente il finale delle puntate si trova proprio tra produttori esecutivi, costumisti e direttori della fotografia. Invece questa volta la cesura è netta, come quella di un taglierino affilato, come la chiusura definitiva degli uffici postali alle 18. Quello ipotizzato in Black Mirror è un futuro in cui per sopravvivere bisogna tentare con tutte le nostre possibilità di essere apparentemente le persone migliori al mondo.
Quando i titoli di coda sono terminati, e il logo Netflix è riapparso sul fondo bianco, sono rimasta intontita per qualche minuto da tutto ciò che si era proiettato nella mia mente. Ho guardato il telefono alla destra del mio computer, accanto al mouse che illuminava con la sua luce rossa una parte della parete di fronte. La prima cosa che ho fatto è stato disattivare il wifi per poi andare in cucina a prepararmi una tisana. Solo una cosa semplice come l’acqua poteva riportarmi alla realtà.