Fotografie di Alessia Naccarato
Succede a volte, che un semplice concerto diventi un rito per tutta una serie di persone che hanno vissuto, e tuttora vivono, la musica in un certo modo. Nelle ultime settimane mi è capitato spessissimo di sentire parlare dell’imminente live dei The Black Heart procession a Spazio211 come qualcosa di irrinunciabile, come la vecchia rimpatriata dei compagni di scuola, di quando si aprono le porte dei ricordi e ci si lascia travolgere dal fiume di nostalgia. Sarà che questo 2017 appena cominciato già profuma di revival, sarà che escono continuamente articoli in cui si svelano i per nulla segreti titoli di album che compiono vent’anni, sarà che è uscito nelle sale Trainspotting 2, o che gran parte dei miei conoscenti quest’anno diventa quarantenne. Per qualche motivo, per quanto non fosse meno doloroso nel 2015 o nel 2016, il 2017 segna un giro di boa, e questo concerto è parte integrante di quello spirito.
Facile, fin troppo facile, lasciarsi andare alla dolce malinconia al cospetto di una delle band che di questo sentimento si è fatta portavoce, album dopo album, a partire proprio da quell’esordio, 1, pubblicato, non a caso, quasi vent’anni or sono, e che la formazione originaria di San Diego, California, ripropone per intero in questo tour celebrativo. Dopo aver incarnato l’anima tenebrosa dell’indie-rock, ricordandoci che non tutto quello che nasce a cavallo tra i 90 e i 2000 è ballabile e spensierato, in ben sei album, spariscono per diversi anni. Il duo fondatore si separa, Pall Jenkins rimane nella home town californiana, mentre Tobias Nathaniel si trasferisce in Serbia, a Belgrado, dove attualmente vive. Palese che questo tour italiano di sei date fosse, per i fan più affezionati, come per quelli dell’ultim’ora, un ritorno gradito e a lungo aspettato.
Prima di loro, ben due open act. Inizia Worlds Dirtiest Sport, nome sotto cui si cela Kevin Branstetter, già fondatore dei Trumans Water, che ci intrattiene in un angolo della sala, su un palco improvvisato. Davanti a lui una serie di pedali ed effetti che arricchiscono l’esibizione chitarra/voce. Unico vezzo scenico, una maschera da lupo che tiene sollevata sulla fronte. Un veloce set con un impianto lo-fi piuttosto dimesso, un mood “house concert” che riesce a catturare comunque i presenti.
L’atmosfera si scalda quando sul palco principale salgono i Grimoon, formazione italo-francese che ci regala una performance audio-visiva con lo spettacolo “Vers La Lune”, dove le visual alle loro spalle raccontano la storia di tre personaggi e delle loro avventure nello spazio, con video in stop-motion che mi ricordano una versione più leggera di certi video dei Tool, accompagnate dalle note della band.
The Black Heart Procession guadagnano il palco davanti ad un pubblico silenzioso ed attento come raramente si vede. C’è trepidazione e fervida attesa, che si sciolgono in un boato ed un applauso quando cominciano le note di The Waiter. Suonano seduti, accompagnati da due musicisti serbi, uno alla batteria, violino e percussioni, l’altro dietro la tastiera, con qualche incursione di fisarmonica. La scaletta prevede l’esecuzione completa di 1, in ordine come da registrazione, e se questo tipo di operazioni tolgono molto dell’effetto sorpresa di un live, in questo caso la potenza sentimentale dei brani esce intatta. Si alternano momenti più dolcemente strazianti ad altri più ritmati accolti da ovazioni (Release My Heart, Blue Water – Black Heart). Una riflessione spontanea nasce dal fatto che tantissimi titoli contengono la parola heart, un lavoro incentrato non tanto sul tema dell’amore romantico, quanto sui sentimenti più intimi e personali, quelli che il sentire comune vuole generati da una parte più profonda della sfera cerebrale, dal cuore appunto. La voce di Jenkins è diversa, più matura, e regala ai brani sfumature ancor più calde e sensuali. Dopo tanti anni l’intesa tra i due musicisti sembra intatta: davanti a noi si sono riuniti un gruppo di amici, sparsi agli angoli del mondo, uniti da un sentimento comune verso la musica che li ha legati per anni.
Dopo la lunga chiusura con Heart Size of a Horse, l’encore non si fa attendere. Si comincia con A Cry for Love, dal quarto lavoro in studio “Amore del Tropico” del 2002. A questo punto Jenkins prende finalmente il microfono per ringraziare, presentare la band e per spiegare la loro posizione riguardo il controverso muro di Trump. Loro, cresciuti a pochi passi dal confine messicano, che hanno sempre vissuto la contaminazione culturale tra Messico e Stati Uniti come una risorsa e una forza, che riescono, forse più facilmente di noi, ad empatizzare con i migranti, allargando a questo punto il discorso anche all’Europa, attuale casa della gran parte dei membri del gruppo. Un cappello introduttivo per The War is Over, brano che suona come un augurio e un grido di speranza, per poi chiudere con un pezzo nuovo, lungo, profondo, che infligge l’ultima pugnalata a cuori già piuttosto provati.
Una performance impeccabile, una dimostrazione di classe e lucidità come raramente se ne vedono, un equilibrio di cuore e mestiere, e per ultimo, un indizio che ci porta a trarre la facile conclusione che qualcosa bolla di nuovo in pentola, che ci siano pronti nuovi brani che fanno ben sperare nell’imminente pubblicazione di nuovo materiale.