Non è famoso quanto Jack Frusciante, ma per chi aveva ascoltato e amato la freschezza del primo album dei Black Country, New Road, For the First Time, l’improvvisa uscita del gruppo del cantante e chitarrista Isaac Wood è una brutta botta. I Black Country, New Road sono una delle band più interessanti e innovative nel panorama musicale degli ultimi anni, un gioioso collettivo sperimentale con i suoi momenti di nero post-rock. Vengono dal Regno Unito, che sta vivendo il suo rinascimento rock e post-punk grazie a band come IDLES, Fontaines DC, Shame, una miniera di talenti e voci nuove che ci hanno abbagliato come ci ha abbagliato l’album d’esordio dei BCNR. La voce di Isaac Wood era il perfetto controcanto allo spirito della band inglese: una voce che riusciva a essere distorta, ombrosa, ventrale, scura e luminosa allo stesso momento. Wood ha annunciato la decisione di lasciare la band pochi giorni prima dell’uscita del secondo album Ants From Up There. Nel comunicato dice di essersi sentito triste e impaurito, un genere di tristezza e paura che gli ha reso difficile suonare la chitarra e cantare. Già lo scorso novembre i BCNR avevano cancellato il loro tour europeo a causa di una non specificata malattia di un membro della band, ora che le cose sembrano più chiare i Black Country hanno deciso di cancellare anche i live in programma nei prossimi mesi. Non c’è da biasimarli, è appena uscito un nuovo disco che ha nella voce di Wood una parte importante e angolare del suono della band. I Black Country, New Road hanno dimostrato rispetto nei confronti del disagio di Wood, ma vogliono sopravvivere allo scossone e portare avanti il progetto: non sarà facile, e per farlo hanno bisogno prima di commiatarsi da Ants From Up There.
Ants From Up There è un disco di fantasmi e assenze dove la Intro si porta dietro una falsa promessa gitana: più il disco va avanti più sembra impregnato di sofferenza, una sofferenza che sentiamo arrivare diretta e senza cenni di virtuosismo nella voce di Isaac Wood e persino nelle grida solitarie del sassofono. For The First Time ci aveva colpito per la sua bella irregolarità, per il modo in cui il collettivo di musicisti inglesi riusciva ad alternare gioia e dolore, per il viaggio indefinito e svagato tra echi slintiani di post-rock e slowcore e puro rock sperimentale, con delle incursioni che spaziavano dal jazz all’atmosfera di una festa balcanica. Ants From Up There arriva invece all’orecchio come un disco più compatto, e probabilmente era la scelta più naturale per il processo di ricerca di identità dei Black Country, New Road. Che fossero musicisti dal talento esplosivo lo avevamo sospettato subito; cosa fossero di preciso e di quale pasta fossero fatti, desideravamo scoprirlo con il tempo e gli ascolti.
L’improvvisa uscita dal gruppo di Wood sembra rimettere tutto in discussione, soprattutto dopo un disco come Ants From Up There dove la sua presenza si fa sentire. È come ascoltare un album mentre stai già ricominciando daccapo. Ti domandi che futuro avranno i Black Country, se rincorreranno gli Arcade Fire, se diventeranno dei virtuosi o continueranno a disturbarci con un’altalena di umori tra la spensierata allegria giovanile e la tristezza dei mostri del disagio. Ti domandi se fosse Wood a portare in dote la parte scura e malinconica della band, poi te ne fotti delle domande e ti lasci contagiare dall’ascolto del disco. Dal caos malato di Chaos Space Marine, dalle bordate disagiate di Concorde e Bread Song, dalle evocazioni dylaniane che sono presenti in The Place Where He Inserted the Blade, dai dolci attriti di piano e chitarra, dal pezzo strumentale al centro dell’album, Mark’s Them, che è una solitaria aria di sassofono dedicata a uno zio scomparso. Giù, fino al commiato lungo 12 minuti di Basketball Shoes.
I BCNR sono ancora uno dei gruppi più originali nel panorama musicale, capaci di contaminarsi e creare spazi di libertà nuovi per le canzoni. La giovane energia schizoide del primo album ne esce fuori appena più ammansita: è un lavoro più doloroso ma che si porta impresso il marchio mai scontato della sincerità. Al secondo disco i Black Country hanno cercato la strada di un’identità più definita per la loro musica, un processo difficile perché quella che è la loro forza – suonare come un collettivo di sette musicisti – può rivelarsi una debolezza nei momenti in cui non si riesce a trovare una sintonia delle menti. Il processo di rivelazione della musica deve trovare l’accordo tra sette teste, tutti cuori vivi e pulsanti. La voce di Isaac Wood riusciva a tenere insieme questa bellissima anomalia, e allora quello che ci auguriamo è che i Black Country non restino relegati all’archeologia della musica come un gruppo che in un certo momento ha fatto uscire due dischi e poi si è smembrato, proprio come quegli evocatissimi Slint che dopo Spiderland misero fine alla loro avventura. Ci sono dischi e gruppi che lasciano impresso il loro segno distintivo sul tempo presente, e chissà se anche in futuro torneremo su queste canzoni abbaglianti di una giovane e incosciente band inglese di inizio anni Venti, se i BCNR saranno sopravvissuti a tutti i terremoti, se Isaac Wood sarà tornato alla base o se la band avrà trovato il suono della riscossa, un’identità che prescinde da Wood. Solo il futuro può saperlo.