I Black Country, New Road sono uno di quei gruppi che mettono una grossa nostalgia della dimensione live della musica. Ad ascoltare il loro disco di esordio, For the First Time, viene davvero voglia di sentirlo dal vivo, di lasciar suonare questa formazione numerosa sopra un palco, di godere della materia del suono delle loro chitarre, e il sassofono, la batteria, il violino, le tastiere, quel loro modo assassino e sincero di sperimentare suoni, di giocare e osare, e reimmaginare le tracce future del rock. Se dobbiamo reimmaginare il futuro tanto vale partire da gruppi come i Black Country, New Road, questa splendida energia giovane, questa nuova generazione di spericolati inglesi, questo carrozzone di musicisti anomali e creativi.
For the First Time contiene solamente sei pezzi, ma l’esperienza di ascolto è pura energia, un viaggio lungo epopee di post-rock dove risorgono echi dei migliori Slint, slowcore che si alterna a un canto da sciamano e sacerdote rock alla Nick Cave dei primi Bad Seeds, e un mescolamento di jazz e incursioni klezmer con improbabili esplosioni gioiose. Insomma, a un primo ascolto For The First Time è un’esperienza da cui si esce fuori frastornati e annichiliti – che cosa ho appena ascoltato?, quante sfumature può contenere un solo album? Un po’ perduti e un po’ felici di scoprire qualcosa di nuovo, una mazzata all’orecchio, una confusione violenta che vorresti davvero esplodesse sul palco, per poterla godere meglio ancora, assecondarla e trascinarla. È questo che succede con i Black Country, New Road: hai voglia di sentirli suonare dal vivo, e potrebbe essere solo un’estranea nostalgia dei tempi andati, oppure l’effetto di un disco che rinnova riuscendo a mescolare e azzardare.
C’è molto del richiamo occulto di Spiderland a esercitare il suo fascino lontano ormai 30 anni, quei suoni che si attaccano alle pareti del cervello e che i BCNR riescono a rievocare così bene, quei suoni che dondolano la testa misteriosamente, l’estro esplosivo di una paralisi al ritmo slow che si consuma a poco a poco. E poi c’è tutto il talento confusionario della band di base a Londra, che non è facile archiviare solamente come una tra le espressioni più felici della nuova ondata di post-punk. Provate a sentirlo per intero For the First Time – a partire dallo strumentale iniziale, dall’incendiaria tastiera che fa entrare in scena uno per uno gli strumenti, le chitarre, il sassofono. Instrumental sembra un’agguerrita fuga di avanguardismo neo-classico, sperimentale improvvisazione riaggiornata alla contemporaneità, dove gli strumenti fanno la loro comparsa sulla scena quasi come voci straziate. Instrumental è una perfetta introduzione al suono dei BCNR e alla loro speciale irregolarità. Ma naturalmente, se non arrivasse quello che c’è appena dopo, un pezzo come Athens, France, difficilmente saremmo qui a parlare solo dell’esibizione di bravura e talento che viene fuori dalla prima traccia strumentale. Con Athens, France arriva la voce, arrivano gli echi slintiani, arrivano le chitarre a prendersi tutto, arrivano il dolore e l’indolenza, arriva l’incantesimo post-rock. Sei minuti abbondanti di odissea letale, di sali e scendi, di perdizione.
Science Fair è un ulteriore assassinio di certezze. La voce magnetica di Isaac Wood qui tocca vette dimenticate da vena sacerdotale rock, le chitarre sono sporche, i suoni grezzi, tanto che a volte richiamano i tempi perduti della bella negazione no-wave. È in questo momento che sembra di stare nel punto più dark di tutto il disco, nel suo cuore scuro e malato, mentre il grido desolato di un sassofono si stringe in gola e si mescola alle distorsioni vocali di Wood. Sunglasses è un’altra coltellata caotica, diamante grezzo che se ne va al ritmo della batteria trovando sfogo negli strumenti a fiato, fino all’esplosione centrale; puro caos di nervi e musica. È tutto un piacere per le orecchie il martellamento sonoro finale di Sunglasses, così come la carica dell’arpeggio iniziale con cui parte Track X, dove la voce ombrosa di Wood si mescola al coro e al violino che accompagnano il suono a sfumare.
È quindi davvero straniante se da un momento all’altro, nella conclusiva Opus, sembra di essere invece catapultati dentro una festa balcanica, a un ritrovo di danzatori gitani. Tutto a un tratto i BCNR si illuminano, trovano i loro punti di luce dentro l’oscurità, e se ne vanno per altre strade. Ma il momento di festa è solo l’ennesimo abbaglio, perché poi i BCNR tornano a fare i cantori del disagio; come se stessero simulando lo stesso movimento della vita, un’altalena allucinata tra momenti per fare festa e momenti per esplorare la paranoia. Ne esce fuori un finale di disco assolutamente originale, che per tratti si contorce su sé stesso intimo, e poi esplode verso l’esterno come un baccanale. For the First Time è davvero un’odissea di energia pura e irregolarità, qualcosa che riaccende il cuore e lo distorce.