Björk è tornata. Dopo quattro anni dal progetto Biophilia (2011), ha realizzato ora il nono album in studio, Vulnicura, il cui titolo e artwork, apparentemente indecifrabili, svelano in realtà molto chiaramente la sua natura. Il primo si direbbe una sorta di mashup tra vulnerability e cure, mentre il secondo raffigura una donna «open chested» che, con gesto sacrale, apre le braccia all’osservatore, quasi fosse pronta a dire qualcosa – forse proprio per parlare di sé.
Sono infatti le vicende personali dell’artista a nutrire la scrittura delle nove tracce, ognuna delle quali mette disperatamente a nudo i sentimenti più crudi provocati da una separazione, in questo caso quella con il compagno Matthew Barney. La cantautrice ha rivelato di aver voluto condividere la propria esperienza emotiva perché chi ascolta la sua musica possa capire che restare feriti, soffrire e, poi, guarire sono solo fasi di un processo biologico che noi tutti comprendiamo, fisicamente e psicologicamente, e a cui è possibile sopravvivere. È una Björk quanto mai comunicativa quella che esplora la malinconia, la furia, la confusione, la solitudine, la speranza, il dolore, la pietà, il rancore, la forza e la nostalgia come controparti dell’amore.
Alla stesura dell’album hanno partecipato Bobby Krlic, aka the Haxan Cloak, Chris Elms e Alejandro Gherisi, meglio noto come Arca (lo stesso che ha lavorato per Kanye West e FKA Twigs nella produzione, rispettivamente, di Yeezus e LP1), del cui incontro Björk sembra essere stata particolarmente felice.
Si può dire che Vulnicura segua una struttura tripartita coerente con lo svolgimento cronologico della storia personale della cantante: le prime tre canzoni (‘Stone milket’, ‘Lionsong’, ‘History of touches’) appartengono al periodo precedente alla separazione, le seguenti tre (‘Black Lake’, ‘Family’, ‘Not get’) a quello immediatamente successivo, le ultime tre (‘Atom dance’, ‘Mouth mantra’, ‘Quicksand’) ad uno ancora più distante, corrispondente al processo di maturazione e dissoluzione del dolore. Un percorso quasi lineare dalla vulnerability alla presa di coscienza della fine di una storia, fino alla cure della propria persona.
Come un’introduzione, gli archi malinconici di ‘Stone milket’ salutano la consapevolezza dell’usura di un legame ormai finissimo:
«We have emotional needs / I only wish to synchronize our feelings / Oh show me some emotional respect». Il disorientamento che deriva dall’impossibilità di conoscere le sorti di una relazione e al contempo il sospetto della sua fine vengono meravigliosamente espressi dagli acuti cori quasi fanciulleschi di ‘Lionsong’, dai suoni snodati, frutto dell’incontro di note di ottimismo e di abbandono:
«Maybe he will come out of this loving me / Maybe he won’t […] / I smell declarations of solitude / […] Once it was simple, one feeling at a time / These abstract complex feelings / I just don’t know how to handle them / […] Make the joy peak, humour peak, frustration peak, anything peak / For clarity!».
Uno dei pezzi più belli dell’intero disco è ‘Black lake’, il primo a segnare il periodo dell’ormai avvenuta separazione. Di tonalità decisamente più cupe, descrive un paesaggio freddo, inevitabilmente divorato dall’ombra e appesantito dalle lacrime. La voce di Björk trasporta una tristezza sincera che arriva esattamente là da dove nasce:
«I am one wound / My pulsating body / Suffering being / My heart is enormous lake / Black with potion / I am blind / Drowning in this ocean».
Questa parte autoreferenziale è seguita da una sorta di break ritmico che la divide dal momento in cui descrive le azioni di quello che era il suo compagno. Il pezzo si chiude con un arco straziante per lasciare la parola a ‘Family’, la cui angoscia vocalica e strumentale è indirizzata alla figlia, vittima del disaccordo:
«I fall on maybes / […] How will I sing us / Out of this sorrow world? / Build our safe bridge / For the child out of / This pain» canta nel bellissimo interlude dal fiato spezzato.
A chiudere la parte centrale del disco è ‘Not get’, canzone dell’incompresione per eccellenza, variamente costruita da sonorità decise e più rapide, che lasciano avvertire meglio che in altri casi la presenza di Arca nelle linee di beat.
Per l’ultima sezione del disco, particolarmente rappresentativa è ‘Atom dance’, impreziosita dalla corposità vocale di Antony Hegarty, un brano di concessa serenità, descritta soprattutto dalla dolcezza della voce:
«I am dancing towards transformation / […] Learning by love to open it up / Let this ugly wound breathe / […] We aim at peeling off / Dead layers of loveless love / No one is a lover alone». Ma gli onnipresenti archi, ancora incalzanti, non confermano questo sentimento, poiché potrebbe trattarsi solo di autoconvinzione:
«Most hearts fear their own home / You are my second hemisphere / The atoms are dancing».
Del ritorno di Björk si è tanto parlato, aspettandosi una nuova virata sul pop piuttosto che sullo sperimentalismo. Se Vulnicura sia più l’una o l’altra cosa non è poi così importante. Ciò che è innegabile è che si tratta di un album talmente vivo che sembra quasi di sentirlo respirare, ora affannosamente ora costantemente, traccia dopo traccia.