YTI⅃AƎЯ: una conversazione con Bill Callahan

Il titolo del nuovo album di Bill Callahan, in uscita il 14 Ottobre per Drag City, è un gioco di specchi sulla realtà. La parola YTI⅃AƎЯ è reality alla rovescia. Al suo ottavo album, Callahan si conferma come una delle voci più affascinanti e profonde del cantautorato americano degli ultimi anni. È difficile credere come riesca a essere così ispirato a ogni nuovo disco, ma è il miracolo che tocca ai grandi cantautori: la voce e il timbro di Callahan sono perfettamente riconoscibili, un marchio di fabbrica, uno strumento che detta il tempo e si insinua in maniera naturale nella musica. Le sue canzoni possono provocare dipendenza. Le dodici canzoni di YTI⅃AƎЯ sono una nuova tappa delle meraviglie a cui ci ha abituato negli anni Bill Callahan: tracce come dipinti, a volte minimali, meditazioni sulla vita, la morte e l’amore, e ancora bellissime esperienze immersive nella natura selvaggia. Il nuovo album dura circa un’ora, Callahan raccomanda un ascolto senza interruzioni in un’esperienza di puro coinvolgimento. Quando gli domando se confida che il disco verrà davvero ascoltato senza distrazioni, lui sorride e confessa che è difficile, forse no – ma ci spera.

Raggiungo in chiamata Bill Callahan per un’intervista in una giornata di fine estate. Callahan, 55 anni, vive a Austin, in Texas, con la moglie e i figli. Mi racconta di aver mangiato una pizza napoletana la sera prima, e che per il momento non sono previste tappe del suo tour in Italia. «Suonerò nel Regno Unito a novembre», dice, «ci sarà un sassofonista, anche se nel disco non c’è nessun sassofono. In Europa dovremmo suonare la prossima primavera. Ora comincia l’inverno e fa freddo», scherza. «In Italia ho avuto bellissime esperienze di concerto, e altre un po’ meno. Le persone ai concerti parlavano troppo». Non esclude di suonare anche in Italia, ma per ora non fa programmi.

Foto Mclean Stephenson

La parola YTI⅃AƎЯ è come riemersa da un processo inconscio. «Facevo dei disegni qualche anno fa, inconsciamente ho scritto reality al contrario, e ho pensato che fosse divertente. Mi sono ricordato di quel disegno dopo aver registrato il disco». La prima traccia, First Bird, è come un delicato risveglio dal sonno. “And where coming out of dream”, canta Bill Callahan cullandoci in acustica. La dimensione del sogno, l’invito a un risveglio da uno stato ipnagogico, sono due cardini dell’intero album. Dentro YTI⅃AƎЯ sembra muoversi una sorta di lotta misteriosa tra le dimensioni di sogno e realtà. «Penso che i nostri sogni ci mostrino la realtà in una maniera astratta, come solo il linguaggio dei sogni riesce a fare. Durante il giorno in qualche modo crediamo di poter controllare i nostri pensieri, ma la notte è il caos. Se potessimo studiare e capire i nostri sogni, allora saremmo capaci di comprendere cos’è la realtà un po’ meglio».

Callahan mi racconta come gli ultimi anni abbiano agito sulla sua percezione della realtà e sui suoi pensieri. «Durante la pandemia ho cominciato a vedere il mondo in una prospettiva differente. La pandemia ha cambiato la mia visione della realtà, delle persone, della politica. Sai, ogni paese ha il suo leader, il suo presidente o primo ministro, ma ho capito che non sono niente di più che dei figuranti, spesso non hanno un grosso potere, sono parte di un gruppo più grande. La gente li guarda come guarda alla figura di un padre o di una madre. Le persone tendono a guardare ai leader dei loro paesi per capire cosa succede e cosa faranno, o come risolveranno i problemi. Ma questo non è accaduto durante la pandemia, nessuno sembrava sapere cosa fare». Callahan sorride nel suo modo impenetrabile. Il suo sorriso è appena un velo, come quello della Monna Lisa.

Foto Hanly Banks Callahan

In un mondo sempre più infuriato e su di giri, YTI⅃AƎЯ vuole essere anche una sorta di panacea alla rabbia, quel genere di rabbia dissociata che distrugge la comunità e ci lascia come individui alla sbando che si sbranano tra loro invece di aiutare gli altri. A better rage, un tipo di rabbia migliore – è quella che si augura di smuovere il disco. «Credo che i social media siano fatti perlopiù per rendere arrabbiate le persone». Gli domando se ha abbandonato Twitter per questo. «Sì, in parte. Stavo cercando la voce di qualcuno di cui potessi fidarmi, ma ho capito che non l’avrei trovata lì. Era troppo caotico per me. È come camminare per strada e sentire tutto quello che la gente sta pensando, rischi di diventare pazzo. Twitter era così per me. Troppe voci, volevo tornare a sentire la mia voce».

Con la sua musica Callahan invita anche noi ascoltatori a una riconnessione con la nostra voce interiore. Nel nuovo album la sua voce è a tratti accompagnata da cori, come accade per Natural Information o Naked Souls. È un disco che funziona anche per la forte comunione con Matt Kinsey, Emmett Kelly, Sarah Ann Phillips, e Jim White. «Ho provato a rendere il disco più piacevole. Perché non ottengo nulla dal solo canto della mia voce. Sai com’è, non puoi farti il solletico da solo. Non puoi ottenere nulla dal tuo stesso canto. Era questo lo spirito». Ci sono i cori, ma la grande protagonista del disco resta la voce baritonale e additiva di Bill Callahan, che resiste al tempo come ha resistito quella di Leonard Cohen. Certe voci sono un dono, gli domando se fa qualcosa per prendersene cura, lui si mette a ridere perché sa che non esiste nessun segreto. «Non faccio molto. Provo a non andare nei bar dove devi urlare per fare conversazione, provo a evitare certe situazioni».

YTI⅃AƎЯ è un disco di canzoni ispirate, dove la chitarra sta al centro di tutto come un cuore nevralgico. C’è la detonante Partition, dove Callahan suona come un vecchio eroe del folk rock con tocchi sacerdotali, o l’intima ballata Drainface con le sue brevi e improvvise accelerazioni. La canzone che preferisce lui però è Lily. «Mi piace molto Lily, soprattutto perché non è convenzionale negli arrangiamenti. Non ero neanche sicuro se avrebbe o meno funzionato, se il pezzo sarebbe arrivato come qualcosa di alieno o solo come rumore random. Ma ce l’abbiamo fatta, ed è strano. È tutto quello che volevo che fosse ma non riuscivo a esprimere. È difficile raggiungere un obiettivo quando non riesci a esprimerlo. È una canzone-sentimento, la band doveva lasciarle un po’ di spazio». Tutte le canzoni di Callahan sono registrate dal vivo. Lily non fa eccezione, è registrata dal vivo in un processo di creazione che cerca di mantenere incontaminata il più possibile la sua componente istintiva.

Foto David Norbut

Una parte del fascino del mondo di Bill Callahan sta nel suo viaggio immersivo nella Natura. In un’epoca in cui uomini e donne vivono sempre meno a contatto con la natura e il selvaggio, Bill Callahan sembra andare in una direzione opposta: è un cantore della natura, una specie di cowboy con la chitarra. Basta sfogliare i titoli di alcuni dei suoi dischi degli ultimi anni – Sometimes I Wish We Were an Eagle, Dream River – per afferrare come l’universo Callahan sia affollato da figure animali, immagini di fiumi selvaggi o vallate solitarie. È interessante cercare di indagare da dove abbia origine questa attrazione nei confronti della Natura. «È un po’ come se fossimo nel Giardino dell’Eden» dice lui. «Nella Genesi, all’inizio della Bibbia – e all’inizio del mondo secondo la Genesi – gli animali sono una delle prime cose. Nella Bibbia quando c’è il Diluvio Universale tutti gli animali salgono su una barca. Penso che gli animali e la natura siano quelli che danno il senso del nostro pianeta e del nostro mondo. In qualche modo la nostra coscienza si esprime attraverso la natura». In uno dei nuovi pezzi, Coyotes, Callahan racconta l’esperienza con i coyote durante un periodo trascorso in collina. «Vivere sulle colline può essere pauroso, in certi momenti quando il sole sorgeva o tramontava i coyote apparivano e provavano ad arrivare verso casa. Mi sentivo come se fossi la loro preda, loro erano predatori e io la preda. Non sempre succede. La maggior parte degli animali ha paura degli esseri umani, questa situazione era diversa. Forse ha qualcosa a che fare con il modo in cui addomestichiamo i cani, loro discendono dai lupi e dai coyote». Callahan parla di una sorta di alleanza segreta tra gli esseri umani e i canini. La canzone è un’abbagliante meditazione alla chitarra.

 

I coyote predatori non sono l’unica apparizione del mondo animale nei testi del nuovo album – in Horse tornano i cavalli, come se dalla spezzata I Break Horses i cavalli non smettessero di occupare la fantasia callahaniana. Tornano i cavalli come tornano irrequieti gli uccelli, già cantati in una delle canzoni più belle del repertorio di Callahan, Too Many Birds. In un certo senso il tempo scorre, ma in tutti questi anni Callahan è rimasto fedele al suo universo musicale e al suo istinto. Si tratta dello stesso Bill in chiaroscuro, quello che in Jim Cain cantava: “I used to be darker, then I got lighter, then I got dark again”. Gli domando se oggi come oggi si senta più scuro o più chiaro. «Direi che mi sento lighter, più chiaro. Abbiamo così tanto controllo sulla nostra visione del mondo, è quasi come un pulsante che puoi premere per vedere chiaro o scuro. Puoi fare la stessa cosa nella vita, nel senso di regolare la tua percezione un poco, per rendere la vita più semplice, più accettabile, o gioiosa, o rispettosa». Nel corso degli ultimi anni Callahan ha incontrato la moglie Hanly Banks ed è diventato padre. «L’incontro con mia moglie non ha cambiato il mio metodo di lavoro o come scrivo, però mi ha dato da scrivere temi differenti, cose diverse su cui riflettere. Mia moglie è un’astuta ascoltatrice, comprende la musica molto velocemente e profondamente. C’era una canzone su questo disco che le ho suonato in una versione demo, lei mi ha detto che poteva venire meglio, quindi ho aggiunto parole, suggerimenti».

Una cosa che certamente non è cambiata è il legame di Callahan con l’etichetta Drag City. Dagli esordi a nome Smog, quando era un giovane musicista della scena lo-fi nei Novanta, è come se con le sue canzoni Callahan avesse attraversato l’America con la chitarra in spalla – i guizzi di sincerità di Daniel Johnston e le tese ballate di Lou Reed, il più puro e sperimentale movimento indie, o il visionario cantautorato alla Neil Young – Callahan ha camminato al fianco di Drag City senza mai perdere di vista la cosa più importante, un’urgenza di fare musica e scrivere canzoni. «Sono rimasto con la stessa etichetta sin dall’inizio. L’industria musicale è cambiata tantissimo da quando ho cominciato, ora c’è internet. Io e Drag City abbiamo una mentalità simile, sul perché facciamo le cose che facciamo, o su come vogliamo farle. Andiamo molto d’accordo. Per tanto tempo loro sono stati l’unica etichetta a non usare lo streaming. Abbiamo attraversato questi cambiamenti insieme, una bella cosa che in un certo senso sembra pazza». Quando gli domando se prova un po’ di nostalgia per i Novanta, lui ci pensa un attimo e conclude: «Sono più eccitato da quello che verrà nel futuro». Racconta che in quel periodo c’erano meno band in giro, meno persone in tour, e tutti si prendevano un po’ cura di tutti. «Oggi sembra che tutti siano dentro una band».

Lo scorso anno Callahan ha rilasciato l’album Blind Date Party insieme a Will Oldham, un altro degli affezionati di casa Drag City Records. Un’esperienza che gli ha lasciato bei ricordi. «È stato durante la pandemia, e ho imparato a registrare tutta la parte vocale soprattutto dal mio letto, o sdraiato sul mio letto (ride), il che è stato divertente. Un’esperienza straordinaria, molto diversa dal solito. Quando lavoro alla mia musica comincio con la voce e la chitarra, e tutto il resto della musica sta a supporto di quello che ho già scritto. Qui avevamo la musica completamente finita …. e io dovevo inserire la mia voce all’interno, che per me è stato un po’ impossibile all’inizio. Ho pensato che non sarei riuscito a farlo, perché in generale non avevo mai lavorato in quel modo. Poi ho provato, provato, e riprovato, ed è stato più facile». Blind Date Party è un album di cover, raccoglie pezzi molto diversi, canzoni dei Silver Jews, Billie Eilish, Iggy Pop. «Quando suono una cover mi sento un po’ come un bambino che sta giocando. Perché le canzoni sono già fatte e scritte da qualcun altro, è più un senso di avventura o gioco».

Le cover di Bill Callahan alle volte somigliano a dei tributi per le persone che sulla sua strada hanno contato qualcosa, in maniera diretta o indiretta. La splendida interpretazione di So Long, Marianne di Leonard Cohen, o gli omaggi in forma canzone dedicati alla memoria di David Berman, vecchio amico scomparso nel 2019. Il mondo musicale di Callahan è un miscuglio di tutte queste parti, più qualcosa di oscuro, una zona d’ombra come le costole magiche di Nick Drake, riemersioni, epifanie e meditazioni, ripetizioni di parole, melodie agguantate, il vecchio country-blues e l’audace epopea del folk-rock. Oggi Bill Callahan è un appassionato di jazz.

«Ascolto un sacco di jazz», racconta. «Mi piacciono John Coltrane e Miles Davis. La scala blues è il genere di cosa che mi piace. Ascolto un sacco i dischi di Miles Davis degli anni Ottanta, c’è molta gente che dice che sono orrendi, io invece li amo. Mi divertono. Ornette Coleman è la mia ossessione del momento. Lui ha inventato l’armolodia. La sua filosofia è che la musica debba essere energia. Questa visione della musica come energia mi ha colpito molto. Tanta della mia musica in passato è stata pensierosa o immobile. Invece penso la musica dovrebbe essere energia perché alle origini doveva far danzare. Ho una figlia di due anni e a lei piace danzare. Se metto un disco la sua risposta è semplicemente ballare. Lei danza soltanto, e questo è un aspetto importante della musica che non dovrebbe essere perso». Come Ornette Coleman, negli anni e a suo modo Bill Callahan ci ha regalato una particolarissima scala di gradazioni, dalla ballata scura alla chitarra, alla traccia sperimentale che si svincola dal linguaggio per trovare nuova libertà, in una frase ripetuta o un’intonazione melodica. Il nuovo album YTI⅃AƎЯ è una nuova parte del percorso, un free folk dove l’energia prende forma in tracce libertarie come Natural Information. L’ascolto è il più puro possibile.


 

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